Dopo aver finalmente riconosciuto che esiste una grave crisi economica in corso anche a livello italiano, il governo Berlusconi ha mosso timidi passi per far fronte alla situazione. Si badi bene, tutte azioni difficilmente paragonabili alle misure messe in atto dai principali governi del pianeta. Alle critiche piovute da più parti – confindustria, sindacati, società civile – con motivazioni diverse, l’esecutivo e la sua solida maggioranza parlamentare hanno risposto invitando al pragmatismo. L'Italia ha vincoli forti di debito pubblico già accumulato – ma non era Giulio Tremonti che invitava ad andare oltre gli assurdi parametri di Maastricht? - e il governo può e deve fare poco, aspettando che i mercati capiscano, si redimano e ricomincino a funzionare.
Eppure qualcosa non quadra. Ci era sempre stato detto che la politica americana è pragmatica, va dritta alla questione e non spreca risorse pubbliche in nome del primato del mercato. E di fronte a questa crisi i pragmatici amministratori americani – incluso il nuovo ministro del Tesoro Timothy Geithner, prima alla FED di New York e vicino al mondo degli affari di Wall Street – hanno messo in campo misure inimmaginabili. Il mega-pacchetto anti-titoli tossici di Geithner ammonterebbe a 2.500 miliardi di dollari, un po' più del PIL del nostro paese. Se tale è il pragmatismo americano, allora vuol dire che questa crisi è davvero senza precedenti, di dimensioni ancora incalcolabili e richiede misure fuori del normale, e ben oltre il pragmatismo all'italiana.
Il governo Berlusconi che ha appena preso la presidenza del G8 in anno cruciale per il futuro dell'economia e della governance globale è chiaramente di fronte ad un bivio, tertium non datur: o si affronta questa crisi con un pragmatismo per limitare i danni e sperare che la nottata prima o poi passi e la malconcia nave italiana esca velocemente e furbescamente non troppo tardi dalla burrasca, oppure si persegue la linea del pragmatismo per cambiare davvero le attuali strutture economiche. E non è solo una questione di stabilità economica e finanziaria, ma di redistribuzione della ricchezza a livello nazionale e globale e di reintroduzione di un controllo democratico sull'economia e la finanza.
L'intera perversa finanziarizzazione dell'economia in ultima analisi è stata dovuta al ritiro forzato dello Stato e dell'intervento pubblico dall'economia, che ha aperto la strada al settore privato. Settore privato che, laddove non aveva sufficienti capitali, ha necessariamente dovuto cercare strategie di pura finanziarizzazione per reperire risorse e garantire elevati profitti, sempre più nel breve termine.
Il mondo dopo questa crisi non potrà essere e non sarà quello di prima. Il rischio è che potrebbe essere ancora peggiore di quello di prima. Siamo di fronte alle macerie ancora fumanti di un sistema internazionale le cui istituzioni e governance sono allo sbando. Se non vi sarà un vero scatto di reni della comunità internazionale per la ricerca democratica di un nuovo consenso – ben oltre il nuovo club del G20, o un G8 allargato a nuove poche potenze – inevitabilmente da abbinare ad una profonda riforma del sistema delle Nazioni unite, allora si andrà subito verso una nuova global governance di fatto, dove il G2 (Usa-Cina) e i suoi più stretti amici decideranno chi uscirà vincente e chi perdente.
Di sicuro non la solita Italia, attendista nel saltare sul carro dei vincitori, né la gran parte dei paesi del pianeta, quelli più poveri, che già oggi iniziano a vivere gli impatti drammatici di questa crisi di cui non hanno affatto responsabilità. Per questi, come per la gran parte dei paesi del pianeta – incluso il nostro– la domanda sarà come poter finanziare un new deal keynesiano, visto che a breve vi sarà una mole di titoli del tesoro Usa e dei principali governi europei che toglieranno mercato agli altri titoli statali meno sicuri. Per questo, oggi più che mai è necessario tornare a proporre un'azione dura ed immediata contro i paradisi fiscali che sono il principale veicolo per fermare l'enorme emorragia di capitali che dai poveri va verso i ricchi – superiore a 1.000 miliardi di dollari l'anno, ben 10 volte l'intero aiuto allo sviluppo mondiale – nonché suggerire l'introduzione di forme di tassazioni internazionali sulle attività monetarie e finanziarie speculative. Il buon senso lo direbbe con un pragmatismo all'altezza della situazione che viviamo.
Antonio Tricarico