sabato 17 ottobre 2009

Chi paga il Talebano

Fonte:

17 ottobre 2009
di Massimo Fini

In un circostanziato articolo il
Times accusa i militari italiani di stanza a Surobi fino a luglio 2008 di aver pagato tangenti ai Talebani per non essere attaccati. Il ministroLa Russa ha smentito sdegnosamente e querelato il Times. Ma ha aggiunto prudentemente: “Nell'estate 2008 ero ministro da poco”. Infatti c'è poco da smentire. Non è la prima volta che gli italiani si comportano così. In Libano, nel 1982, il generale Angioni si mise d'accordo con quelli che avrebbe dovuto combattere. In Iraq, dopo Nassirya, ci siamo accordati con Moqtada al Sadr e non abbiamo più avuto problemi. In Afghanistan la novità è la tangente pagata direttamente al nemico. Un accordo c'era anche a Herat. Saltò quando, il 3 maggio 2009, un convoglio di militari italiani, con i nervi a fior di pelle, sparò a una Toyota che procedeva in senso inverso, regolarmente sulla propria corsia, uccise, decapitandola, una bambina di 12 anni e ferì tre suoi congiunti. Era una famigliola che andava a un matrimonio. Da allora gli attacchi agli italiani cessarono di essere “dimostrativi” (tanto per non insospettire troppo gli americani) e, dopo il ferimento di tre paracadutisti, a settembre ci fu l'agguato mortale a Kabul. Noi siamo alleati fedeli (come i cani) ma sleali. Gli inglesi che sono quasi gli unici a combattere sul serio, e che hanno perso solo nei mesi estivi quasi 40 uomini, si sono stufati e hanno fatto filtrare le notizie al Times.

Peraltro non sono solo gli italiani a fare i felloni. Scriveva il 19/9 l'inviato del
Corriere Lorenzo Cremonesi: “Milioni arrivano ai talebani dalle tangenti versate dai contingenti occidentali in cambio di protezione”. E altri da tangenti pagate agli insorti perché permettano il passaggio dei rifornimenti dal Pakistan. Ce n’è quanto basta per farsi un'idea di chi controlla realmente il territorio in quel Paese. Come se ne esce? Parole di saggezza sono venute dal vicepresidente Usa Joe Biden che ha capito una cosa: i Talebani non hanno niente a che vedere col terrorismo internazionale, gli interessa solo il loro Paese e non costituiscono un pericolo per l'Occidente. Ha detto Biden: “I talebani sono un gruppo indigeno, ben radicato fra la popolazione, che aspira a conquistare pezzi di territorio ed eventualmente a governare il Paese ma non ambisce ad attaccare gli Stati Uniti”. E ha fatto anche capire che sarebbe possibile un accordo col Mullah Omar, disponibile a liberarsi del centinaio di quaedisti che oggi sono in Afghanistan, memore di quanto gli costò, nel 2001, la presenza di Bin Laden. Omar non è né un terrorista, né un criminale, né un pazzo, è un uomo pragmatico che firmerebbe all'istante un accordo di questo tipo: fuori gli stranieri, in cambio solide garanzie che a nessun terrorista internazionale sia permesso di circolare liberamente in Afghanistan. Nel 2000 bloccò la coltivazione del papavero, è sicuramente in grado di cacciare a pedate quattro quaedisti strapenati.

da Il Fatto Quotidiano n°21 del 17 ottobre 2009

don Paolo Farinella

venerdì 16 ottobre 2009

Due sentenze quattro bugie

Fonte:

16 ottobre 2009, in MARCO TRAVAGLIO


Vignetta di Bertolotti e De PirroLa doppia sberla subìta da Berlusconi sui lodi Mondadori e Alfano ha partorito una serie diballe spaziali che, grazie al silenzio del Pd e all'avallo della stampa 'indipendente', sono subito diventate Vangelo.

1. Non è vero che - come strillano i berluscones e ripete Pappagalli della Loggia sul 'Corriere della Sera' - "innovando la sua stessa giurisprudenza la Consulta ha stabilito che una legge ordinaria non basta, ci vuole una legge costituzionale" per immunizzare le alte cariche. Già nella sentenza del 13.1.2004 che bocciò il lodo Schifani, la Corte scrisse: "Alle origini dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione. regolato da precetti costituzionali". Poi, per respingere il lodo,
ritenne sufficienti quattro profili di incostituzionalità nel merito; quanto al fatto - pure contestato dal Tribunale di Milano - che la schifanata era solo una legge ordinaria, tagliò corto: "Resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale". Dunque, non disse mai che, per derogare al principio di eguaglianza, basta una legge ordinaria.

2. Non è vero - come scrive Angelo Panebianco sul 'Corriere' - che "nel '94 la caduta del governo Berlusconi fu propiziata dalla garanzia offerta ai congiurati che non ci sarebbero state immediate elezioni anticipate. Ma al Quirinale oggi siede un vero custode della Costituzione come Napolitano". Il primo governo Berlusconi cadde perché
la Lega gli tolse la fiducia in dissenso sulla riforma delle pensioni. Scalfaro, con buona pace dello smemorato editorialista, fece quel che gli imponeva la Costituzione: verificò l'esistenza di un'altra maggioranza e la trovò intorno al governo Dini, scelto dallo stesso Berlusconi, che poi gli negò la fiducia. Nessuna congiura, nessun 'ribaltone'.

3. Non è vero che Berlusconi rappresenta il 68 o il 72 per cento degli italiani né che - come strombazza Panebianco - "gode di consensi più forti, secondo i sondaggi, di qualunque governo del recente passato al secondo anno".
Le Europee di giugno parlano chiaro: il Pdl ha raccolto 10.807.794 voti, cioè il 35,26% del 60,81% dei voti validi, cioè il 21,47% degli aventi diritto. E la Lega il 6,21%. L'opposizione parlamentare si divide il 24,75%, quella non approdata in Parlamento oltre il 10, mentre il totale di astensioni, bianche e nulle tocca il 37,17. Traduzione: il centro-destra rappresenta meno del 28 per cento degli elettori, il Pdl un italiano maggiorenne su 5. Berlusconi ha raccolto la miseria di 2,7 milioni di preferenze: il 5,7 per cento degli elettori, poco più di uno su 20.

4. Non è vero che Berlusconi è stato "eletto dal popolo".
L'Italia è una Repubblica parlamentare: il popolo elegge il Parlamento che esprime una maggioranza in cui il capo dello Stato pesca il presidente del Consiglio. Se il Cavaliere, troppo occupato con i giudici o le escort, non ha tempo per governare, può passare la mano a un collega di partito. Come fanno in tutte le democrazie i politici indagati (imputati non ne risultano).
(Vignetta di Bertolotti e De Pirro)

Mc Donald’s vs Mac Bün: la multinazionale Americana diffida il cibo locale

Fonte:

Graziano Scaglia, allevatore di Rivoli, ha deciso di aprire una “agri-hamburgeria” nel centro del paese, dove proporre panini fatti utilizzando solo carne degli animali proveniente dalla propria azienda, oltre a verdure e formaggi rigorosamente prodotti dalle imprese agricole del territorio. Adesso però si è visto diffidare dal Mc Donald’s con la scusa che il nome scelto per la sua attività, Mac Bün (in dialetto “solo buono”) ricorderebbe il marchio della multinazionale americana.

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Con la scusa del nome scelto per la sua attività, Mac Bün (in dialetto “solo buono”), Mc Donald's ha diffidato un allevatore di Rivoli
Ha chiamato la sua attività, dove serve agri-hamburger fatti con carne di vitello di razza Piemontese, “Mac Bün” – in dialetto “solo buono” –, ma ora si è visto diffidare dal Mc Donald’s con la scusa che il nome ricorderebbe il marchio della multinazionale americana. E’ la storia di un allevatore della Coldiretti al quale il colosso statunitense ha deciso di muovere guerra.

Graziano Scaglia, 39 anni, allevatore di Rivoli che già aveva avviato uno spaccio aziendale per la vendita diretta dei suoi prodotti, ha deciso di aprire una “agri-hamburgeria” nel centro del paese, dove proporre panini fatti utilizzando solo carne degli animali proveniente dalla propria azienda, oltre a verdure e formaggi rigorosamente prodotti dalle imprese agricole del territorio, pane artigianale e vino del Monferrato.

L’idea ha subito riscosso un buon successo - evidenzia la Coldiretti -, con una vendita di 300 hamburger al giorno, serviti con formaggio piemontese fuso.

Un ottimo esempio di filiera corta e una alternativa intelligente ai fast food tradizionali nei quali si serve cibo anonimo e indifferenziato - sottolinea Coldiretti -, garantendo trasparenza ai consumatori, reddito agli agricoltori e occasione di sviluppo economico per l’intero territorio.

Al momento però di depositare il nome della sua attività – Mac Bün Slow Fast Food –, l’allevatore piemontese ha ricevuto - spiega la Coldiretti - una lettera dei legali della multinazionale con la quale si intimava di ritirare la richiesta in quanto il nome “Mac Bün” ricorderebbe troppo il marchio McDonald’s. L’allevatore si è difeso spiegando che il termine da lui scelto appartiene al dialetto piemontese e viene utilizzato solitamente proprio per riferirsi al cibo genuino, “solo buono” appunto.

In attesa di dirimere la questione e inaugurare ufficialmente la sua agri-hamburgeria - rileva la Coldiretti - Scaglia ha per ora deciso di “censurare” il logo che identifica il locale, sostituendo le lettere “ac” di “Mac” con due asterischi.

L’idea dell’allevatore piemontese - aggiunge Coldiretti - è un ottimo esempio delle possibilità dell’impresa agricola di accorciare i passaggi all’interno della filiera e di offrire ai consumatori un prodotto sano, di qualità, agricolo e al cento per cento italiano. Obiettivo che è al centro del progetto per una filiera agricola tutta italiana lanciato da Coldiretti per tagliare le intermediazioni e arrivare a offrire attraverso la rete di Consorzi Agrari, cooperative, farmer market, agriturismi e imprese agricole cibi totalmente italiani, firmati dagli agricoltori, al giusto prezzo il cui argomento è al centro del Forum Internazionale dell’agricoltura e dell’alimentazione di Cernobbio, che si conclude il 17 ottobre prossimo.

La speranza dell’allevatore piemontese è ora quella di poter vincere la battaglia contro la multinazionale. Magari come accaduto in Puglia, dove una “focacceria” tipica ha costretto un grande fast food straniero alla chiusura, tanto da diventare soggetto di un film.

Influenza suina: partono le vaccinazioni tra i dubbi della Corte dei Conti (e non solo)

Fonte:

La vaccinazione di massa per l'influenza H1N1 è cominciata nonostante i casi siano meno del previsto e una fitta nebbia avvolga il contratto tra Ministero della Salute e Novartis, la fornitrice del vaccino contro il virus suino.


di
Andrea Boretti

vaccino influenza suina
“Abbiamo appena varato la sconfitta del virus suino” ha detto l'Assessore alla Sanità della Regione Lombardia Luciano Brescianini a seguito della prima vaccinazione di un operatore sanitario italiano
“Abbiamo appena varato la sconfitta del virus suino” ha detto Mercoledì 14 l'Assessore alla Sanità della Regione Lombardia Luciano Brescianini a seguito della prima vaccinazione di un operatore sanitario italiano. Il programma, il primo a partire in Europa, continuerà nei prossimi giorni con altri operatori sanitari - anche se solo il 30% dei medici di famiglia si sottoporrà alvaccino per la stagionale e a quello per l'H1N1 - e continuerà con i soggetti tra i 3 e i 28 anni che secondo le autorità sarebbero i più a rischio.

All'Assessore Bresciani fa eco il solito sottosegretario Fazio il quale sembra ormai, invece, arrendersi alla realtà: "l'allarme per l'influenza A è sicuramente sopravvalutato".

Come, sopravvalutato? Ma non era la peggiore pandemia del secolo, simile alla spagnola, quella di inizio '900 che ha fatto strage di milioni di europei? Com'è possibile allora che solo 10000 persone (contro le 50000 previste)siano state, ad oggi, contagiate?

Probabilmente è un miracolo, probabilmente siamo stati fortunati o forse è tutto merito di Topo Gigio e dei suoi insuperabili consigli che vale la pena di ricordare qui:

- lavati le mani col sapone (buona idea)

- se non te le sei lavate non toccarti il naso e non metterle in bocca!

- copriti la bocca quando tossisci (eh dai...)

- apri le finestre per cambiare aria (fa sempre bene)

- se hai la febbre o il raffreddore sta a casa dal lavoro (con buona pace di Brunetta)

vaccino influenza suina ministero sanità
24 milioni sono le dosi di siero commissionate alla Novartis dal Ministero della Sanità
Topo Gigio o meno, la pandemia si squaglia al primo sole d'autunno, anche se ormai , a onor del vero, ciò che veramente interessava è stato fatto e comprato: il vaccino! 24 milioni sono, infatti, le dosi di siero commissionate alla Novartis dal Ministero della Sanità, per una cifra che ancora oggi è avvolta nel buio più completo al punto che neanche la Corte dei Conti è stata in grado di venirne a conoscenza. Se le indiscrezioni parlano di 200 milioni di euro la verità è che, nonostante i controlli, sono molti e irrisolti i dubbi della Corte, la quale afferma di aver dato il via libera all'ordinanza del Presidente del Consiglio solo per i caratteri di "eccezionalità" e "urgenza" che presentava.

Nonostante la riservatezza del contratto con la Novartis, tra le righe della delibera della corte trapelano alcune parti dello stesso, ovvero quelle che più di altre hanno sollevato dubbi nella corte stessa. Tra questi il fatto che il contratto sia stato stipulato prima che il vaccino - chiamato Focetria - esistesse e fosse autorizzato dal''UE. A partire da questo dato il contratto, sottolinea la Corte, include «la possibilità di mancato rispetto delle date di consegna del prodotto senza l’applicazione di alcu na penalità». Inoltre "anche in assenza dell’autorizzazione all’im missione in commercio in Italia» il Ministero appare obbligato ad accettare il vaccino.

Ma non è tutto. Il Ministero sarebbe rimborsato in caso di danni causati a terzi solo nel presenza di difetti di fabbricazione, mentre in tutti gli altri casi ad essere rimborsato sarebbe la Novartis, la quale, ovviamente, è l'unica chiamata a definire se il vaccino è difettoso oppure no. Infine, sempre secondo l'Ufficio controllo della Corte, il contratto sarebbe «carente del parere di un organo tecnico in grado di attestare la con gruità dei prezzi».

Ormai sono tutti dettagli, i soldi - quanti non si sa e non si capisce perchè non si debba sapere essendo denaro pubblico - sono stati spesi per la felicità della Multinazionale Novartis e anche nostra, visto che la sconfitta del virus suino è stata così varata!

mercoledì 14 ottobre 2009

No-Tav, la valle di Susa mette in crisi il PD torinese

Fonte:

di Giorgio Cattaneo

Nuove complicazioni in vista per il “partito unico” che da anni sostiene la necessità di aprire in valle di Susa una linea speciale per l’alta velocità ferroviaria, contro il parere della popolazione, che pretende spiegazioni decisive (mai fornite) sull’utilità reale dell’infrastruttura. La notizia di questi giorni riguarda il Pd, che denuncia la clamorosa “diserzione” di 50 iscritti, tutti amministratori valsusini, schieratisi dalla parte del movimento No-Tav alla vigilia della temuta ripresa delle attività cantieristiche, annunciata per l’autunno dal premier Silvio Berlusconi e dal ministro Altero Matteoli: entro ottobre dovrebbe scattare il nuovo ciclo di scavi geognostici, a Chiomonte.

Le nuove prospezioni geologiche, secondo i piani, serviranno a valutare la consistenza del sottosuolo alle falde del massiccio dell’Ambin, in previsione del futuro euro-tunnel ferroviario tra Italia e Francia. Sul versante italiano, tra gallerie e trincee, l’itinerario dovrebbe svilupparsi sulla destra orografica della valle attraversata dalla Dora Riparia, sotto i rilievi del parco naturale dell’Orsiera-Rocciavré e della Sacra di San Michele, millenaria abbazia, monumento simbolo del Piemonte. I lavori verrebbero considerati di minor impatto ambientale, rispetto al progetto inziale disegnato alle pendici del Moncenisio e del Rocciamelone, bloccato nel 2005 dopo la quasi-insurrezione della valle, con 70.000 persone schierate a sbarrare strade, autostrada del Fréjus e ferrovia Torino-Modane.

Dalla grande protesta del 2005 nasce la decisione di stralciare la Torino-Lione dalla “legge obiettivo”, che prevede procedure accelerate e senza una valutazione standard dell’impatto ambientale, nonché la creazione dell’osservatorio tecnico presieduto dal commissario governativo Mario Virano, alla guida di un organismo consultivo incaricato di “dialogare” con la popolazione attraverso gli amministratori locali, nel 2005 saliti anch’essi sulle barricate indossando la fascia tricolore.

Dopo il nulla di fatto del governo Prodi, che sulla Tav non ha preso nessuna decisione grazie anche al freno opposto da Verdi e comunisti, il governo Berlusconi ha annunciato l’imminente ripresa dei lavori. Mentre nel 2005 la popolazione locale si oppose in modo anche drammatico all’avvio di un progetto ormai in fase avanzata, frutto di anni di analisi geologiche, ora si tratta di ripartire da zero, avviando una nuova serie di carotaggi, sul versante opposto della valle, per poi predisporre, successivamente, un progetto di tracciato vero e proprio.

A indispettire i valsusini, ora, è la notizia che la Torino-Lione (contrariamente alle promesse del 2005) sarebbe re-inserita nella “legge obiettivo” per le grandi opere. Di qui la crisi diplomatica con Virano e il suo osservatorio torinese. A cui si aggiunge l’aperta ribellione politica del Pd locale, che - dopo tre anni di paziente silenzio, in attesa di possibili mediazioni risolutive - alla vigilia del congresso nazionale del partito si è schierato, come già nel 2005, dalla parte del movimento No-Tav.

Non è infatti il solo centro-destra ad allarmare la maggioranza dei valsusini, che la scorsa primavera - alle amministrative - hanno arginato l’offensiva elettorale del Pdl, tesa a conquistare terreno e ridurre il numero di sindaci “ribelli”, ostili all’alta velocità. Il vero problema è che sia il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, sia la presidente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, sulla Torino-Lione la pensano esattamente come Silvio Berlusconi: precedenza assoluta all’alta velocità in valle di Susa, sia pure minimizzandone l’impatto e contrattando con la popolazione locale un’adeguata contropartita.
Quanto basta, evidentemente, per indurre gli amministratori valsusini iscritti al Pd a sfidare dichiaratamente il partito. Non si tratta di un gesto irrilevante: sullo sfondo si profilano infatti le elezioni regionali del 2010, che si annunciano estremamente incerte, con sondaggi che attribuiscono la vittoria al Pdl. Anche qualora l’Udc si schierasse col centro-sinistra, si attende un risultato al fotofinish, nel quale potrebbe pesare - eccome - il voto della valle di Susa.

Il nodo fondamentale, purtroppo, non è mai stato risolto. Alle accuratissime contro-osservazioni del movimento No-Tav, che ha mobilitato i migliori specialisti universitari italiani, i vari governi (nazionali e regionali, di ogni colore) non hanno mai opposto ragioni inoppugnabili a sostegno dell’infrastruttura ferroviaria, definita “strategica” ma senza mai chiarirne il ruolo, l’utilità effettiva, il valore reale. Tutte le “certezze” sulla Torino-Lione, in compenso, sono negative: cantieri devastanti, impatto pericoloso sulle falde acquifere, paesaggio sfregiato per sempre, rischi per la salute (polveri), enorme investimento di denaro pubblico.

Se il movimento No-Tav ribadisce la linea della fermezza (”no al treno, senza se e senza ma”), i sindaci hanno a lungo atteso una proposta strategica per il territorio, in grado di compensare almeno in parte i sicuri danni in arrivo. Se questa partita continua a mantenersi più che mai incerta, sarebbe auspicabile - quantomeno - un pronunciamento chiaro, documentato e inattaccabile sulla reale utilità dell’opera, finora soltanto presunta e mai dimostrata in alcun modo, ancorché continuamente decantata: con un lessico imbarazzante (sviluppo, progresso) che, più che la cultura dell’attualità internazionale del 2009, richiama il dopoguerra e gli anni ‘50.

4 ottobre 2009: Petra Reski

Fonte:

martedì 13 ottobre 2009

Sweetness is big money. La Francia autorizza l’uso e la commercializzazione della Stevia

Fonte:


La pubblicazione del decreto interministeriale francese di autorizzazione all'uso e alla commercializzazione del rebaudioside A (Reb A), sul Journal officiel del 6 settembre scorso, ha aperto di fatto le porte del mercato europeo alla SteviaRebaudiana. Si tratta di una pianta sudamericana (della famiglia delle Asteraceae) utilizzata da secoli, in particolari dai Guarani, come dolcificante e pianta medicinale. Il potere dolcificante dei suoi estrattti, tra questi il rebaudioside A, può essere fino a 300 volte superiore a quello dello zucchero normale. La Stevia è senza calorie e ha un indice glicemico nullo.

Essa è utilizzata in Giappone già dalla metà degli anni '70.
Perché viene autorizzata in Europa solo adesso?

La risposta è semplice "Sweetness is big money", ovvero "la dolcezza fa guadagnare tanti soldi", come ha dichiarato Rob McCaleb, fondatore e presidente dell'americana Herb Research Foundation.

Per anni la Stevia ha subito la concorrenza scorretta dell'aspartame, utilizzato nella produzione di bibite con poche calorie. Negli ultimi anni però il mercato delle bibite "light" ha cominciato a perdere quota, proprio a causa delle oramai nota tossicità dell'aspartame. Nonché delle conseguenti scelte di acquisto dei consumatori, che si orientano sempre più verso i prodotti naturali.

Di fronte a questa situazione i così detti soda giants come Coca Cola e PepsiCo, non sono rimasti con le mani in mano, se è vero che sono stati proprio i loro rispettivi fornitori di dolcificanti (Cargill e Merisant), a presentare la richiesta di autorizzazione alla Food & Drug Administration (FDA) l'anno scorso. Autorizzazione che, dopo anni di provvedimenti contrari (la Stevia era autorizzata solo come integratore alimentare), non si è fatta attendere molto ed è stata rilasciata dalla FDA lo scorso 19 dicembre (Libération, 26.12.2008).

La Francia, e con essa l'Europa, non fa altro che mettersi al passo dei giganti americani, spinte dalla preoccupazione di non perdere troppe quote di mercato. Secondo Rabobank, banca specializzata nel settore agroindustriale, le vendite globali di Reabaudioside A potrebbero raggiungere i 700 milioni di dollari nei prossimi cinque anni. Una quota enorme se si considera che nel 2008 il mercato dei dolcificanti ad alta intensità è stato stimato in 1,3 miliardi di dollari.

Sweetness is really big money.

Fiorenzo Fantuz

La guerra del cibo comincia dal riso

Fonte:

Non c’è abbastanza riso per sfamare il mondo; la popolazione continua ad aumentare e ogni minuto si perde un ettaro di terreno agricolo sfruttabile. Una nuova guerra mondiale, quella del cibo, pare quindi alle porte. Una guerra che, come se non bastasse, sta causando una perdita della biodiversità alimentare con conseguenze anche a livello sanitario.


di
Andrea Boretti


"Credo che oggi sia in corso una nuova Guerra mondiale: quella del cibo" dice Vandana Shiva, fisica e scienziata che ormai da anni si batte per la biodiversità in agricoltura e per l'indipendenza dei contadini indiani. Una guerra su più fronti, che si gioca sul controllo delle risorse, dei terreni e delle sementi e che nei prossimi anni è destinata a inasprirsi con il continuo aumento della popolazione mondiale che raggiungerà i 7,7 miliardi di persone nel 2050.

In questo senso, è particolarmente preoccupante l'affermazione di Robert Ziegler, Direttore Generale dell'International Rice Institute, secondo cui "non c'è abbastanza riso per sfamare il mondo (...) ma in particolare è difficile mantenere il prezzo del riso attorno ai 300 dollari a tonnellata, cosa che permetterebbe ai piccoli produttori dei Paesi poveri di ottenere qualche profitto e contemporaneamente ai consumatori più poveri di poterlo acquistare. Per ottenere ciò, abbiamo bisogno di produrre ulteriori 8-10 milioni di tonnellate di riso rispetto all'anno precedente nei prossimi vent'anni".


Vandana Shiva
Tutto questo appare ancora più difficile se si considera mentre il prezzo delle colture di base è sottoposto ad una forte speculazione, tutta una nuova generazione di consumatori si sta in questi anni affacciando al mercato mondiale (pensiamo a Cina e India), aumentando così la domanda - e il prezzo - di riso e colture di base.

Secondo l'American Farmland Trust, solo negli Stati Uniti la popolazione aumenta - spinta soprattutto dall'immigrazione - di 3 milioni di individui ogni anno, il che si traduce nella perdita di un ettaro di terreni agricoli al minuto. L'importanza e quindi anche il valore economico della terra è di conseguenza destinato ad aumentare.

Meno terra, uguale meno cibo. Se si assume questo punto di vista, diventa quindi inconcepibile l'utilizzo di tali terreni per la produzione dei cosiddettibiocombustili, un trend produttivo che sta crescendo sulle orme dell'attuale "rivoluzione verde", ma con un costo in termini di disponibilità di derrate alimentari e di aumento della fame del mondo decisamente troppo elevato. Senza contare che anche questo tipo di pratica, peraltro considerata poco efficiente dal punto di vista energetico, concorre nell'aumentare anch'essa il prezzo del cibo.

Aumento della popolazione, diminuzione dei terreni coltivabili, biocombustibili, ma non è tutto. Molte altre sono le concause di quella che Vandana Shiva chiama la guerra del cibo. Tra queste una più di tutte merita di essere citata e analizzata: la perdita di biodiversità alimentare, dove per biodiversità s'intende "l'insieme di tutte le forme viventi, geneticamente dissimili e degli ecosistemi ad essi correlati".


Secondo uno studio della FAO il pianeta, negli ultimi 100 anni, ha già perso il 75% del proprio patrimonio alimentare. Parte di questa perdita è dovuta ai cambiamenti climatici, alla trasformazione dei terreni, all'abbandono della comunità che la coltivava in favore di un'agricoltura industriale simbolo di modernità. Fatto sta che in occidente la nostra alimentazione si basa oggi solo su 4 colture (mais, riso, soia, grano) contro le 387 (di cui 62 frutti differenti) di una comunità indigena thailandese di 600 abitanti. Questa perdita ha conseguenze anche a livello sanitario in quanto, come da tempo dimostrato, il cibo tradizionale è più nutriente mentre quello industriale è responsabile di molte delle patologie (obesità, colesterolo, diabete) tipiche della nostra società moderna.

Nel corso dei prossimi anni la guerra del cibo entrerà nell'agenda degli stati nazionali più di quanto non lo sia già ora, ciò che è importante è quindi che la questione salga sempre più all'attenzione della gente comune e della società civile che potranno così spingere verso soluzioni favorevoli ai popoli e non, come purtroppo spesso succede, dei baroni del profitto.


Dice sempre Vandana Shiva:"Dobbiamo riprenderci il diritto di conservare i semi e la biodiversità. Il diritto al nutrimento e al cibo sano. Il diritto di proteggere la terra e le sue diverse specie. Dobbiamo fermare il furto delle multinazionali a danno dei poveri e della natura. La democrazia alimentare è al centro dell'agenda per la democrazia e i diritti umani, al centro del programma per la sostenibilità ecologica e la giustizia sociale."

Biopirateria: l’assalto alla natura

Fonte:

La biopirateria è la nuova frontiera del neocolonialismo in cui tutto, anche la conoscenza ancestrale delle proprietà delle piante, diventa merce nel circolo vizioso della crescita. Dall’Africa all’America Latina, questa è la nuova mucca da mungere per le multinazionali farmaceutiche.


di
Romina Arena

biopirateria scienza natura
Il mito della crescita ha portato a non tenere in debita considerazione le conseguenze che l’azione umana potrebbe avere sull’ecosistema
Che l’uomo depredi la natura a suo uso e consumo non è una novità. Il mito della crescita ha portato a non tenere in debita considerazione le conseguenze che l’azione umana potrebbe avere sull’ecosistema. Ma la crescita, si badi bene, non è soltanto un fenomeno deleterio sulla natura, bensì un processo che si serve della natura stessa. Ne è un esempio la biopirateria, nuova forma di colonizzazione che scippa alle popolazioni native del sud del mondo rimedi naturali, prodotti e processi biologici da secoli utilizzati e presenti in natura per sottoporli ai vincoli della proprietà intellettuale.

Succede che orde di scienziati, ricercatori, ma anche chi con la scienza non ha apparentemente nulla a che vedere come missionari ed ambasciatori, sono da tempo impegnati nel cercare, trovare e acquisire, in Asia, Africa ed America Latina - che con la foresta Amazzonica costituisce un territorio ricchissimo di biodiversità - ritrovati e segreti che appartengono alle popolazioni indigene. È così che le grosse multinazionali farmaceutiche riescono ad allargare il loro bacino di profitto equiparando, attraverso i brevetti, prodotti di sintesi creati materialmente in laboratorio con sostanze che invece si trovano liberamente in natura, che nessun uomo ha creato artificialmente e sulle quali, quindi, la politica dei brevetti finisce per essere illegale.

È successo così per lo Hoodia, un cactus che i Kung del Kalahari ed i San, Boscimani del Botswana, utilizzano per combattere i morsi della fame durante le battute di caccia. Nel gambo della cactacea, infatti, è conservato un principio attivo capace di dare un prolungato senso di sazietà. Nel 2000 il gene della pianta, ribattezzata P-57 dal Council for Scientific and Industrial Reserach, in Sudafrica, viene brevettata dalla Phytopharm, piccola azienda farmaceutica inglese la quale per 21 milioni di dollari da alla Pfizer la licenza esclusiva di utilizzo. In un mondo in sovrappeso la scoperta del cactus spezza-fame si trasforma in una vera e propria miniera d’oro.

biopirateria natura semi
Quello della biopirateria è un mercato estremamente redditizio che si aggira intorno ai 5000 milioni di dollari, terzo solo a quello delle armi e della droga

Lo stesso vale per la Vinca Rosea, pianta del Madagascar dalla quale la Eli Lilly & Co. di Indianapolis ha tratto due farmaci di successo la Vincrastina e la Vinblastina; oppure per la Pentadiplandra brazzeana, conosciuta come J’Oblie, una bacca africana di cui l’Università del Wisconsis ha brevettato una proteina per farne un dolcificante.

Non sono al sicuro neanche le bevande tradizionali da quando il Pozol, bevanda dei campesinos messicani ottenuta diluendo una pasta di mais fermentata in acqua è entrato nelle mire dell’industria olandese Quest International e dell’Università del Minnesota che insieme hanno brevettato un batterio della bevanda in grado, con la proprietà di impedire la decomposizione degli alimenti, di fungere la conservante naturale. Tra la Guinea ed il Brasile gli indios Waphisana utilizzano il Tapir, la noce dell’Ocotea Rodiati come contraccettivo, antiemorragico e disinfettante. Il Chimico britannico Conrad Gorinsky ha ottenuto dei brevetti per delle sostanze isolate dal Tapir; così come il trafficante di legname Robert Larson riuscì a brevettare il Nim, albero indiano che funge da pesticida naturale, e venderlo immediatamente all’Industria Wr Grace.

La biopirateria, però, non colpisce solo le piante. Celebre è il caso delle 750 rane della specie Epipedobates tricolore, trafugate nel 1998 in Ecuador dalla Abbot Latoratories di Chicago, per produrre la Epibatidina, un analgesico brevettato negli Usa molte volte più efficace e forte della morfina.

animali biopirateria
La biopirateria non colpisce solo le piante, ma anche gli animali

Quello della biopirateria è un mercato estremamente redditizio che si aggira intorno ai 5000 milioni di dollari, terzo solo a quello delle armi e della droga. Il valore commerciale dei prodotti farmaceutici elaborati grazie ai brevetti sulle piante è di circa 147 milioni di dollari, senza che alcun corrispettivo spetti alle comunità locali.

Laddove si è potuta ottenere qualche vittoria sui giganti farmaceutici si è trattato pur sempre di una vittoria effimera e temporanea. Il caso dellaAyahuasca ecuadoriana è emblematico. Si tratta di una bevanda ottenuta bollendo una liana e foglie di arbusto. Loren Miller, proprietario della International Plant Medicine Corporation, industria farmaceutica nordamericana, brevettò la pianta, ma nel 1996, grazie all’azione del Coordinamento delle Organizzazioni Indigene della Conca Amazzonica improntò un ricorso contro Miller, vincendolo. Il brevetto fu ritirato, ma Miller nel 2001 riuscì ad ottenerlo nuovamente.

Vi è tuttavia un altro volto della biopirateria, plasmato dal cambiamento climatico e dal tentativo di costruire colture geneticamente modificate in grado di resistere a particolari stress ambientali.

resistenza biopirateria
Laddove si è potuta ottenere qualche vittoria sui giganti farmaceutici si è trattato pur sempre di una vittoria effimera e temporanea

È questa la nuova frontiera attraverso la quale le industrie biotech dimostrano di essere in grado di produrre i cosiddetti geni “climate-ready”, che permettono alle colture di sopportare siccità, alluvioni, salinizzazione del terreno, aumento delle temperature, ovvero tutte quelle conseguenze previste dal cambiamento climatico. Come al solito, però, la tecnologia che si vanta di essere innovativa e soprattutto indispensabile, arriva sempre in ritardo rispetto alla natura ed all’esperienza dei contadini poiché, osserva Vandana Shiva, “i tratti di resistenza al clima che i giganti della biotecnologia agricola hanno brevettato sono il risultato di evoluzioni secolari nelle tecniche agricole dei contadini”. La stessa Shiva con il gruppo da lei fondato, labanca di semi di “Navdanya”, ha riportato nel 2001 un importante successo sulla multinazionale Usa RiceTec la quale pretendeva la proprietà intellettuale sui tratti dei semi della varietà di riso basmati a chicco lungo di sua produzione. Dopo la dimostrazione che quella varietà di riso in realtà conteneva materiale genetico sviluppato dalle varietà degli agricoltori, alla Usa RiceTec fu respinta la richiesta del brevetto.

I vari imperi multinazionali che siano Monsanto, Dupont, Basf Bayer, Syngenta sono in prima linea nel brevettare i cosiddetti geni climatici per i quali hanno depositato 532 brevetti raggruppati in 55 famiglie, che non avranno come conseguenza - questo è l’allarme lanciato da Etc group - quella di aiutare i piccoli agricoltori a sostenere i rischi del cambiamento climatico, ma solo di concentrare il potere delle multinazionali, aumentare i costi, inibire linee di ricerca indipendenti e soprattutto mettere a rischio la libertà degli agricoltori di conservare e scambiare liberamente tra loro le sementi.

Vendo Eurotunnel a prezzi di realizzo

Fonte:


Marco Cedolin
Vero affare! Vendesi a saldo porzione del più lungo tunnel sottomarino del mondo, in perfetto stato nonostante un paio d'incendi ed i suoi 15 anni di età, durante i quali l’infrastruttura ha accumulato una decina di miliardi di euro di debiti ed un paio di fallimenti, senza essere riuscita a chiudere neppure una sola volta il proprio bilancio in attivo. Cercasi acquirenti solvibili, estremamente motivati e coraggiosi, no perditempo ed industriali rampanti alla ricerca di facili profitti sul modello italiano di NTV.

Grosso modo potrebbe essere questa l’inserzione che verrà pubblicata nei prossimi giorni sui giornali di annunci economici dal premier britannico Gordon Brown, intenzionato a vendere tutta una serie di beni pubblici del valore nominale di 17,3 miliardi di euro, per tentare di ripianare un debito pubblico salito al 12% del PIL.
Oltre alla partecipazione di capitale nella società che gestisce il tunnel sotto alla Manica e la ferrovia che lo percorre, Gordon Brown sembra intenzionato a cedere anche la quota di partecipazione statale del 33% nell’azienda che arricchisce l’uranio per le centrali atomiche (Urenco), l’avveniristico e ultra trafficato tunnel di Dartford, che corre sotto al Tamigi, la società di scommesse Tote, oltre a centri ricreativi, poli di business e numerose altre proprietà immobiliari.

Il tentativo di recuperare risorse attraverso la dismissione di beni pubblici, per porre un freno alla sempre più rapida crescita del debito britannico, lascia intuire come la crisi economica abbia lasciato il segno e le misure adottate dal governo per tentare di contrastarla (sostanzialmente elargizione di denaro pubblico alle banche) abbiano messo in seria crisi le finanze pubbliche.
L’opposizione liberaldemocratica ha criticato aspramente la decisione di Gordon Brown, ritenendo controproducente il tentativo di vendere parti importanti della proprietà pubblica, in un momento in cui i mercati sono profondamente depressi e sarà molto difficile spuntare il reale valore dei beni oggetto delle dismissioni, con il rischio di praticare una vera e propria “svendita” del patrimonio pubblico.
Nel caso di Eurotunnel, ci sentiamo di aggiungere noi, visti i risultati economici ottenuti fino ad oggi dall’infrastruttura e dal servizio dei treni ad alta velocità/capacità che la percorrono, si tratterà già di un enorme successo se al momento della svendita si presenterà un qualche acquirente amante del rischio e disposto a rilevare la partecipazione. Si tratterà certo di una bella scommessa, alla quale avrebbe potuto magari essere interessato il Tote, se non fosse inserito anch’esso nella vetrina dei saldi anticipati di fine stagione.

I pizzini dei Lo Piccolo rivelano l'affare delle slot machine

Fonte:

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di Dora Quaranta - 12 ottobre 2009
Palermo.
Venerdì scorso la guardia di finanza ha sequestrato 17 slot machine, del valore di 50 mila euro, dislocate presso una decina di esercizi commerciali tra Isola delle Femmine, Carini, Cinisi e Terrasini.




Le macchinette, intestate a prestanome, sarebbero riconducibili ai boss Lo Piccolo.
L’operazione delle Fiamme Gialle è stata eseguita al termine di una attività di indagine coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Francesco Del Bene e Annamaria Picozzi. Il tutto ha preso il via dall’esame dei pizzini rinvenuti il giorno della cattura dei Lo Piccolo il 5 novembre del 2007 nel covo di Giardinello. Nei pizzini erano stati annotati tutti i bar e le tabaccherie con il numero delle macchinette mangiasoldi installate. Le slot, secondo gli investigatori, fruttavano al clan circa 100 mila euro all’anno. Inoltre al vaglio degli inquirenti vi sono decine di lettere firmate da un certo “Spagna” (identificato in Fabio Micalizzi) che ogni mese faceva il rendiconto ai padrini delle entrate e delle uscite settimanali. In queste lettere vengono nominati anche altri due individui: “Mare”(non ancora identificato) e “Frutta” (Giovanni Botta).

domenica 11 ottobre 2009

Cibo per animali: scatolette e croccantini ricche di tumori e vivisezione

Fonte:

L’industria del pet food è un vero business responsabile della sofferenza di molti animali. Dalle scatolette ai croccantini, tutti questi prodotti vengono testati sugli animali per valutare la tossicità o l’efficacia curativa rispetto a alcuni disturbi. Una vera operazione di marketing incurante di aumentare il rischio di cancro e di altre malattie degenerative per i nostri amici animali. Vediamo quali marche evitare e quali no.

di Giovanna Di Stefano

Cane con cartello
La sperimentazione animale si annida persino nell’industria che produce cibo per animali, il cosiddetto ‘pet food’
In ogni prodotto che compriamo si possono celare sofferenze, spesso atroci, di malcapitati animali cosiddetti ‘da laboratorio’: cani, gatti, topi, conigli, ma anche pecore, maiali o asini. Come noto le industrie che alimentano la vivisezione sono quelle del settore farmaceutico e cosmetico che mietono un gran numero di vittime innocenti - stimate intorno ai 300 milioni ogni anno - in esperimenti di dubbia o nulla utilità, macchiandosi spesso di crimini gravissimi anche a causa della mancata applicazione delle misure obbligatorie atte a ridurre al minimo la sofferenza dell’animale (anestesia).

Pochi sanno tuttavia che la sperimentazione animale si annida persino nell’industria che produce cibo per animali, il cosiddetto ‘pet food’, pur non essendo affatto obbligatoria per legge; elemento questo che aggrava le responsabilità e rende eticamente molto meno accettabili le politiche aziendali di alcune multinazionali leader del settore. Dalle scatolette ai croccantini, dagli ossi vitaminici alle ‘diete’ terapeutiche: ognuno di questi prodotti viene testato su animali per valutarne la tossicità o l’efficacia curativa rispetto ad alcuni disturbi.

Un business responsabile della condizione di prigionia e sofferenza di molti animali, afflitti dai sintomi di malattie che vengono loro indotte artificialmente in laboratorio al fine di poter poi testare l’efficacia di qualche crocchetta studiata ad ‘hoc’ per ogni patologia. Sui siti delle più note marche di cibo per animali, che praticano massicciamente la sperimentazione, si possono trovare decine di formulazioni diverse di crocchette per ogni disturbo dal diabete all’artrosi, dalle dermatiti alle patologie dentali, persino alcune che curerebbero l’invecchiamento celebrale o problemi cardiaci del nostro amico a 4 zampe!

croccantini
Negli ingredienti si legge: ‘derivati di carne’ o ‘farine di carne’. Queste ultime indicano che la materia prima è ottenuta da un processo di riciclaggio
Sorge quantomeno il sospetto che le diete proposte siano una meraoperazione di marketing costruita a tavolino per indurre i padroni più apprensivi ad acquistarli, e che l’unica prova di efficacia risieda eventualmente nei resoconti degli esperimenti effettuati dalle ditte stesse (!), senza alcun riscontro comprovato nei ‘pazienti’ finali.

Per la metà dei disturbi che queste diete ‘scientificamente testate’ curerebbero, il veterinario vi dirà che è sufficiente un cibo più leggero, un giusto equilibrio tra carne e verdure nella ‘pappa’, più attività motoria o l’eliminazione di alcuni alimenti; senza la necessità di acquistare costosi prodotti e alimentare così un business implicato nella morte di molti animali, ai quali la sorte non ha riservato né una casa e né una strada, ma lo stabulario di un laboratorio.

Il mercato del pet food è una branchia del settore dell’industria della carne per consumo umano, affermatosi grazie alla possibilità di riutilizzare con profitto e quindi di capitalizzare una notevole mole di scarti, i quali, per evidenti ragioni igieniche, sarebbero altrimenti destinati al macero. Un 50% del volume della carcassa dell’animale ucciso è considerato sottoprodotto e diventerà quindi pet food, entrando a far parte di quel composto - ripugnante per il nostro olfatto - contenuto nelle scatolette che compriamo a Fido: ossa, sangue, intestini, tendini, legamenti, mammelle, esofagi e, probabilmente, le parti malate o cancerose degli animali macellati sono gli ingredienti del mix variegato che poi viene presentato sottoforma di crocchette confezionate in un sacchetto accattivante con un Fido felice e soddisfatto davanti alla sua ciotola (?).

animali pet food cancerogeno
Si stima che più del 50% delle farine di carne siano contaminate dai pericolosi batteri di E.Coli. La cottura prevista dal processo può uccidere tali batteri, senza tuttavia eliminare le endotossine rilasciate dagli stessi
Negli ingredienti si legge: ‘derivati di carne’ o ‘farine di carne’. Queste ultime indicano che la materia prima è ottenuta da un processo di riciclaggio, per l’esattezza la legge (Legge 15 febbraio 1963 n° 281 e smi) le definisce “Prodotto ottenuto dal riscaldamento, dall'essiccamento e dalla macinazione della totalità o di parti di carcasse di animali terrestri a sangue caldo”; i derivati sono invece“sottoprodotti provenienti dalla trasformazione del corpo di animali terrestri a sangue caldo”, ovvero scarti di lavorazione di origine animale non meglio identificati. Ad essere trasformate in farine sono generalmente le carcasse di animali morti per malattie, ferite o vecchiaia, le quali possono essere avviate a questo ciclo soltanto a diversi giorni dalla morte ed e' per questo motivo che presentano poi spesso contaminazioni da batteri tipo Salmonella ed Escherichia Coli.

Si stima che più del 50% delle farine di carne siano contaminate dai pericolosi batteri di E.Coli. La cottura prevista dal processo può uccidere tali batteri, senza tuttavia eliminare le endotossine rilasciate dagli stessi; in questa fase non sempre si riescono ad annientare nemmeno gli ormoni (usati per far ingrassare il bestiame), ne' gli antibiotici o i barbiturici (usati come anestetici). In compenso le alte temperature raggiunte per le farine possono alterare gli enzimi e le proteine che si trovano nella "materia prima" riducendone il già basso potere nutritivo.

Già da questi pochi elementi si può capire perché alcuni veterinari sostengono che nutrire il proprio cane o gatto con gli scarti della macellazione, per l’esattezza con il pet food confezionato, aumenta il rischio di cancro e di altre malattie degenerative: la presenza di sostanze tossiche nei tessuti degli animali macellati, dovuta ad un tipo di allevamento - quello intensivo - richiede un uso massiccio e sconsiderato di antibiotici e altri medicinali per far si che gli animali non si ammalino date le pessime condizioni igieniche in cui versano (assenza di arieggiamento e luce naturale, altissima concentrazione di capi, aria insalubre, ecc).

cane ed esperimenti
Un cane utilizzato per esperimenti sulla colite
Naturalmente tali sostanze permangono nelle carni dell’animale, e quindi tra l’altro, anche in quelle destinate al consumo umano; basti pensare ai vari casi diintossicazione da carne (70.000 ogni anno negli USA intossicati dal colibatterio) attribuibili proprio alla presenza dell’E.Coli in alcuni hamburger.

Ma non è ancora tutto. L’industria deve infatti cercare di confezionare un prodotto che in definitiva piaccia a Fido, altrimenti il padrone vedendolo inappetente …cambierà marca! E’ fuori di dubbio che una poltiglia composta dagli ingredienti sopracitati non può avere i requisiti di appetibilità e bontà per un cane, a meno che non si tratti di un randagio a digiuno da giorni. Dunque, come porre rimedio all’aspetto e all’odore poco invitante di questo mix di scarti per di più contaminati? Ecco che servono degli ‘appetizzanti’: per esempio il grasso animale riciclato, o gli oli troppo rancidi e classificati come inadatti per gli umani sono usati a questo scopo e vengono spruzzati direttamente sulle crocchette, sui ‘bocconcini’ e sui ‘patè’ prima del confezionamento.

Uno scenario allarmante, sia per il contenuto che in definitiva Fido si ritrova nella ciotola tutti i giorni e che a lungo andare non può non ripercuotersi sulla sua salute, sia per i tremendi e inutili esperimenti praticati su animali, fatti per assecondare le ragioni del marketing e non certo la salute dei nostri animali. Un panorama che fortunatamente non accomuna tutte le aziende produttrici di pet food. Ve ne sono alcune, per lo più piccole poco note perché non reclamizzate, che impostano la loro politica in modo del tutto differente, si potrebbe dire senz’altro più dal punto di vista dei cani e dei gatti: privilegiano la qualità degli ingredienti di base e si schierano contro ogni pratica di sperimentazione animale.


Scegliere di acquistare le marche SI e boicottare le marche NO è un’azione concreta, forte, ed efficacissima che ognuno può fare per combattere la vivisezione
Tali aziende scelgono di impiegare solamente sostanze naturali per il confezionamento di bocconcini e crocchette, senza l’impiego di conservanti o coloranti, né di additivi chimici o oli di scarto per aumentarne l’appetibilità, puntando sul concetto che carni, verdure e cereali di qualità non necessitano di essere ulteriormente insaporiti. Per garantire la conservazione utilizzano aromi naturali (rosmarino ed estratti della vitamina E e C) oltre ad una confezione perfettamente sottovuoto; alcune garantiscono la provenienza della carne esclusivamente da allevamenti a pascolo, altre specificano l’assenza di farine animali, di grassi idrogenati e zuccheri, altre ancora propongono delle linee ‘bio’, con carni e verdure biologiche.

Alcune infine hanno un’offerta di prodotti vegan e diete curative, ottenute queste ultime con l’addizione di estratti vegetali, di tipo fitoterapico e quindi del tutto naturale (per esempio il Ginseng, la Rosa canina e l’Ananas hanno un forte potere antiossidante e antinfiammatorio, la Yucca è una pianta che agisce a livello intestinale migliorando la digestione, il lievito di birra infine è una preziosa fonte naturale di vitamine del gruppo B).

In quest’ottica decisamente attenta all’ambiente e alla naturalità del prodotto la sperimentazione su animali non è ovviamente contemplata, o meglio l’unico test che praticano queste aziende è quello dell’appetibilità del cibo. Come si esegue? Si somministra il prodotto ad un campione di qualche decina di cani (cani in famiglia o rifugi), e si osserva il livello di gradimento. Insomma se il cane mangia di buon gusto la pappa è buona, altrimenti no: molto semplice, ma efficace e soprattutto non cruento. Data l’assenza di additivi chimici o sottoprodotti potenzialmente pericolosi il test punta infatti esclusivamente a valutare il sapore del cibo, non una sua eventuale tossicità, perché non ve ne sarebbe evidentemente motivo.

Si riporta in questo articolo un elenco aggiornato delle principali marche ‘SI’, quelle che non alimentano la vivisezione e garantiscono una maggior genuinità del prodotto, seguito dalle marche ‘NO’ da evitare accuratamente, (si veda la foto ingrandibile proposta poche righe più sopra) perché oltre ad essere responsabili di crudeli esperimenti su cani e gatti sono proprietà di multinazionali, che notoriamente perseguono la politica del profitto ad ogni costo.

Scegliere di acquistare le marche SI e boicottare le marche NO è un’azione concreta, forte, ed efficacissima che ognuno può fare per combattere la vivisezione. In particolare le marche dell’elenco positivo dichiarano di non effettuare né commissionare a terzi test su animali di alcun tipo per i loro prodotti. Si tratta in genere di un’autocertificazione aziendale che viene evidenziata sul sito attraverso uno spazio dedicato alla comunicazione dell’eticità del prodotto, in cui si certifica la propria estraneità ai test sugli animali, spesso accompagnata dall’apposizione del logo ‘cruelty free’ (coniglietto).

Alcune aziende per acquisire maggior credibilità presso i clienti rispetto a questa loro politica ottengono anche una sorta di certificazione da parte di alcune associazioni animaliste, come per esempio Salut Pet garantita da OIPA, Aniwell da PETA, Arovit da PETA UK. E’ possibile quindi non solo sfamare ma anche assecondare i gusti e i capricci alimentari dei nostri amici pelosi senza arrecare sofferenza e morte ad altri cani o gatti, e tutelare la loro salute con una terapia di prevenzione, che consiste innanzitutto nel somministrargli ingredienti sani e naturali.