domenica 6 dicembre 2009

NOBDAY

Ecco cosa si deve inventare l'informazione italiana per far sapere
quanta gente c'era al NOBDAY

mercoledì 28 ottobre 2009

Panem et Circenses: gli errori dell’uomo pagati dagli animali

Fonte:

L’uomo ritiene, con la presunzione di non essere smentito, di poter disporre a suo uso, abuso e consumo della natura e dei suoi abitanti pennuti, pinnati, quadrupedi e quadrumani. Laboratori, circhi, zoo, allevamenti sono la frontiera (dis)umana al progresso della scienza, al divertimento, alla produzione sfrenata.


di
Romina Arena

uomo scimmia circo dominare
L'uomo ha sempre avuto la convinzione di poter dominare la natura
I crimini contro la vita li chiamano errori, Pierangelo Bertoli

L’uomo ha sempre avuto la convinzione di poter dominare la natura. Ha sempre pensato che il proprio status di essere intelligente e dotato di raziocino gli desse una sorta di diritto di prelazione sugli animali, il loro habitat, i loro cicli vitali.

La bestia, così definita perché, secondo un concetto filosofico ben radicato, priva di quelle capacità cognitive ed intellettuali proprie dell’Homo sapiens sapiens (due volte sapiens, addirittura), è soggetto, oggetto e strumento nell’affannosa ricerca di quella nuova molla che proietti l’umanità in un costante ed all’infinito procrastinato futuro.

Anche se ad oggi si ha notizia che in alcune zone del mondo, quelle povere, manco a dirlo, esistono individui equiparati, ai fini del progresso scientifico, agli animali e che quindi di questi ultimi compartecipano la sorte, rimangono sempre le bestie i più assidui frequentatori di laboratori, gabbie e gabbiette ammassate nei magazzini nella estenuante cavalcata verso un domani neanche tanto bene definito e soprattutto neanche così tanto allettante.

Sulle loro carni, sulle loro pellicce, sui loro organi si avvicendano figure tra le più disparate che siano scienziati, cuochi, bracconieri, mercanti, santoni e faccendieri che con le loro trovate immaginano ed alla fine pretendono di restituirci cosmetici più belli, brillanti e ricercati per le nostre membra; capi d’abbigliamento alla moda per soddisfare il più sfrenato slancio di vanità; pozioni miracolose che ci guariscano ogni morbo del corpo e dell’anima; cibi succulenti che accarezzino con esotica voluttà il più fine dei palati; bersagli mobili per soddisfare il più basso degli istinti predatori.

mucca pazza ecatombe bovina
L’encefalopatia spongiforme bovina, meglio conosciuta come mucca pazza, è stata una buona occasione per provocare un’ecatombe bovina di portata planetaria
Laddove non arriva la scienza, il fucile o il pennello per stendere l’ombretto vi arriva la voglia di soddisfare il pubblico ludibrio, quei gridolini concitati ebbri di eccitazione che fendono l’aria quando si scopre che la bestia, in verità, balla, canta, salta a comando, si fa ficcare una testa tra le fauci, tiene una palla ben ferma sul naso, sbatte le pinne per applaudire, salta nei cerchi infuocati,imita l’uomo nei vizi e nelle, poche, virtù. Dove la scienza lascia il passo al godimento dello spirito, lì spuntano i circhi, gli zoo, gli acquari e i delfinari.

Carceri o poco più (spesso anche molto meno) che ricreano intorno alle bestie, nella migliore delle ipotesi, ambienti fittizi fatti di palme, rocce, laghetti, Iceberg, grotte, liane e tanta, tanta desolazione. La bestia è un’attrazione, un fenomeno da baraccone, un quadrupede che si drizza sulle zampe posteriori: la fotografia col tigrotto o con il pitone adagiato sulle spalle come un pesante, scivoloso ed umidiccio collier; l’orso che si lancia dalla roccia per cercare la frescura nelle acque palustri del laghetto artificiale o il gorilla che tra le sbarre tende una mano (perché di quello si tratta) per ricevere qualche nocciolina o qualche sparuta caramella; il delfino che spunta come un siluro dall’acqua per compiere evoluzioni mozzafiato in alto nell’aria per poi tuffarsi con grazia in quello che per lui è poco più che un pantano. Applausi fragorosi, bambini con lo sguardo rapito, macchine fotografiche in tilt.

Panem et Circenses.

Cibo e divertimento per rispondere all’insaziabile esigenza, che si trasforma in pretesa, atto dovuto, di ristorare lo spirito e temprare il corpo ad una velocità che i giusti tempi ciclici della natura non contemplano. Allora alle siringhe dei laboratori, ai frustini dei circhi, alle palle colorate dei delfinari si aggiungono quei lager che la vulgata comune si ostina a chiamare allevamenti.

fois gras allevamenti oche
Agnelli, galline, maiali e poi branzini, tonni, trote ed orate ammassati in ambienti insalubri, tempestati di antibiotici, condannati a standard di vita e di produzione innaturali
Agnelli, galline, maiali e poi branzini, tonni, trote ed orate ammassati in ambienti insalubri, tempestati di antibiotici, condannati a standard di vita e di produzione innaturali. Le vacche con le mammelle costantemente strizzate; le galline a spremersi per le uova; le oche ad ingrossarsi, letteralmente, il fegato. Tutti invariabilmente costretti a crescere in fretta e produrre altrettanto velocemente. In questo vortice, però, spesso qualcosa sfugge, parte per la tangente, crea delle anomalie negli animali che diventano letali per l’uomo.

E l’uomo cosa fa? Dotato di quel suo ingegno che non per niente lo rende sapiens, taglia il problema alla radice, seguendo i consigli di Arthur Schopenhauer. Perché le responsabilità non sono mai dell’uomo, che si accanisce con le sue alchimie, i suoi esperimenti, i suoi vaccini sulle bestie, ma di queste ultime, zozze, immonde, che si ammalano, contaminano le loro carni e devono essere soppresse.

L’encefalopatia spongiforme bovina, meglio conosciuta come mucca pazza, è stata una buona occasione per provocare un’ecatombe bovina di portata planetaria; l’influenza aviaria ha segnato un delirante sterminio di polli, tacchini e simili; il nuovo virus dell’influenza A ha dato inizio ad uno specioso quanto inutile eccidio di maiali.

Mi chiedo, non senza certa preoccupazione, cosa succederebbe se un giorno, in questa follia collettiva, venisse fuori un nuovo virus e lo chiamassero influenza umana .

Spagna, Marinaleda: una casa per 15 euro al mese...

Fonte:http://www.terranauta.it/a1500/citta_in_transizione/spagna_marinaleda_una_casa_per_15_euro_al_mese.html

In un paesino dell'Andalusia gli abitanti hanno deciso, da anni, di lavorare tutti insieme per un'utopia di pace, uguaglianza e giustizia. Oggi ci sono lavoro e benessere, e da qualche tempo tutti possono avere una casa con un mutuo di 15€ al mese.


di
Miriam Giudici

marinaleda casitas andalusia
A Marinaleda un paesino nel cuore dell'Andalusia gli abitanti hanno scelto di vivere tutti da "protagonisti"
Sembra materiale da romanzo, oppure da articolo venato di nostalgia su una qualche comunità di sognatori dei bei tempi andati, eppure quello che accade a Marinaleda è una storia reale e di oggi.

Una storia che gli abitanti di questo paesino - meno di tremila nel cuore dell'Andalusia - hanno iniziato a scrivere, con tenacia, alla fine degli anni '70, dopo la caduta del franchismo. Una storia che hanno scelto di vivere tutti da protagonisticostruendo in prima persona una democrazia a tutto tondo, non solo politica – “vado a votare ogni quattro anni, e tanti saluti” - ma sociale ed economica, perché tutti contano allo stesso modo nelle scelte comuni e la ricchezza individuale non è base per discriminazioni.

Si potrebbe cominciare a raccontare questa storia dalle sue ultime battute e meravigliarsi, mentre intorno il resto della Spagna fronteggia la crisi economica e immobiliare, a Marinaleda i cantieri sono in piena attività. Si costruiscono case. Case per tutti.

La ricetta è questa: sono i cittadini stessi a costruire gli immobili, con 420 giornate di lavoro e contraendo un mutuo di 15€ al mese per 133 anni; lavorano sotto la direzione di esperti e operai professionisti messi a disposizione dal Comune, con materiali forniti dal Comune, su un terreno che il Comune ha ceduto gratis, perché sul terreno non si specula, ma lo si mette a disposizione di chi può abitarci, lavorarci e trasformarlo in ricchezza.

marinaleda cantiere cittadini
Sono i cittadini stessi a costruire gli immobili, con 420 giornate di lavoro e contraendo un mutuo di 15€ al mese per 133 anni
E in questo modo entro i prossimi tre anni, si prevede, avranno trovato casa cinquecento famiglie.

Da questo strabiliante risultato, poi, si potrebbe dare un'occhiata alla storia passata, per provare a capire come mai questo piccolo miracolo si sia potuto concretizzare così.

E si scopre che questa storia collettiva però un po' ce l'ha, un personaggio che spicca, un protagonista, si chiama Juan Manuel Sanchez Gordillo, alcalde (sindaco) di Marinaleda fin dalle sue prime libere elezioni del 1979.

Un esponente della sinistra anticapitalista e libertaria per cui i cittadini hanno votato compatti per trent'anni, che ha speso i primi otto anni del suo mandato nel guidare la popolazione a riappropriarsi delle terre dei latifondisti per creare lavoro e ricchezza.

Juan Manuel Sanchez Gordillo sindaco marinaleda
Il sindaco Juan Manuel Sanchez Gordillo è il vero protagonista di questa politica
Combattute e vinte queste lotte, Gordillo ha puntato tutto sull'allargare il più possibile la partecipazione alla gestione della cosa pubblica; insieme si lavora nei campi, nelle cooperative, nelle fabbriche e nei cantieri e insieme si prendono le scelte in più di quaranta assemblee pubbliche l'anno.

Qualcuno lo chiama comunismo e qualcuno accusa Gordillo di essere una sorta di Hugo Chavez locale, saldamente al potere da decenni e costantemente impegnato a indottrinare il popolo.

Ma intanto i media hanno scoperto Marinaleda, molti italiani ne hanno sentito parlare recentemente grazie al magazine Mediterraneo del Tg3 e persino il New York Times se ne è occupato.

E, soprattutto, Marinaleda da piccola e bizzarra comunità di nostalgici socialisti si è trasformata in un motivo di riflessione per gli spagnoli tutti, che vivono in un Paese dove gli ultimi quindici anni di speculazione immobiliare hanno lasciato quattro milioni di case vuote e due milioni di persone che un tetto sulla testa ce l'hanno a stento.

La crescita verniciata di verde

Fonte:


Marco Cedolin
L’importanza del business ecologico, quale fonte di facile profitto e altrettanto facile costruzione di popolarità politica, continua a diventare ogni giorno più evidente. Lo hanno compreso perfettamente i grandi e piccoli leader politici, impegnati ormai da qualche tempo a dipingere di un’improbabile tinta verde i propri programmi elettorali e le proprie azioni, pur continuando senza posa nella sistematica devastazione dell’ambiente. Così come lo hanno capito le grandi industrie ed i grandi gruppi legati all’energia che pur portando avanti politiche ambientalmente criminali, vengono rappresentati dai giornalisti e pubblicitari al proprio servizio, in TV e sulla carta stampata, sotto forma di aziende interessate in primo luogo alla tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini.

Proprio il comparto dell’energia e quello dei trasporti, intimamente legati fra loro, sono risultati essere fra i più sensibili al canto delle “sirene ambientaliste”, arrivando a produrre ossimori e cortocircuiti logici di ogni sorta. Questo poiché i dogmi della crescita e dello sviluppo impongono il consumo di quantità sempre crescenti di energia e solamente attraverso l’illusione che tale energia possa venire prodotta in quantità pressoché illimitata e con scarse ricadute in termini d’inquinamento ambientale, si riuscirà a veicolare nell’immaginario collettivo il convincimento che sia possibile continuare a procedere all’infinito sulla strada intrapresa.

All’interno di questa scuola di pensiero sono molti i casi di mistificazioni macroscopiche, attraverso le quali si è inteso creare patenti di “sostenibilità ecologica” nei confronti di strumenti che risultano privi di qualunque presupposto volto a meritarle. Basti pensare ai
forni inceneritori a recupero energetico spacciati come un metodo “pulito” attraverso il quale produrre energia tramite i rifiuti, nonostante risultino essere strumenti di morte tanto dannosi per la salute quanto insostenibili dal punto di vista economico. Alle centrali nucleari, ai treni ad alta velocità, alle centrali a carbone "pulito" ed a quelle turbogas. Tutte tecnologie altamente impattanti, presentate come la nuova frontiera dell’ambientalismo, dopo essere state ricoperte di una mano di vernice verde.

Nonostante l’opera di tinteggiatura e la ridda di mistificazioni messe in atto, continua però a risultare evidente l’assoluta inadeguatezza degli strumenti esistenti, nel garantire la progressiva crescita delle risorse energetiche a disposizione nei decenni futuri, anche a fronte del possibile esaurimento dei giacimenti petroliferi. Ecco allora fuoriuscire come d’incanto dal cilindro del prestigiatore tutta una serie di progetti più o meno fantascientifici, più o meno realizzabili, più o meno aderenti alla realtà, che infarciscono le pagine dell’informazione, promettendo al lettore per il prossimo futuro energia a iosa, pulitissima ed eterna.
Dal momento che ai tinteggiatori del futuro la fantasia non manca, l’elenco si manifesta lungo ed assai variegato e spazia dalla
centrale eolica (grande quanto il Galles) da posizionare nel deserto del Sahara, che al modico costo di 50 miliardi di euro sarebbe in grado d’illuminare l’intera Europa, alla cittàZiggurat in grado di ospitare un milione di persone all’interno di soli 2,3 chilometri quadrati, alle navi robotizzate che dovrebbero risolvere il problema del riscaldamento globale attraverso l’irrorazione delle nuvole con acqua marina, fino a giungere al progetto del "traffico rinnovabile" prodotto dalla società israeliana Innowattech.

Quest’ultimo, consistente nell’impiego di generatori piezoelettrici che affogati nell’asfalto delle autostrade sfrutterebbero l’energia meccanica determinata dal passaggio delle automobili e dei mezzi pesanti, producendo in questo modo energia elettrica, merita un’attenzione particolare.
I dati diffusi dalla stessa Innowattech, relativi alla possibilità di produrre, quando c’è gran traffico, circa 100 kW all’ora per ogni km di corsia autostradale, non significano infatti nulla, non potendo essere letti in funzione del costo al km dell’impianto e dei dati relativi al carico economico determinato dalla manutenzione ed alla frequenza della stessa, che al momento risultano sconosciuti. Ma la natura del progetto sembra calzare davvero a pennello per i sogni di tutti coloro che sono impegnati a dipingere di verde la macchina della crescita e potrebbero “finalmente” costruire dappertutto autostrade e tangenziali a 6, 8 o 12 corsie, sulle quali far correre milioni di autovetture e mezzi pesanti, raccontando che lo stanno facendo unicamente per il bene dell’ambiente. Proprio l’equilibrio ambientale dovrebbe infatti trarre enormi benefici, insieme all’economia, dalla produzione di così tanta “energia pulita” che scorreva dinanzi ai nostri occhi senza che ce ne fossimo mai accorti, impegnati com’eravamo ad osservare unicamente il mare di petrolio necessario a muovere quegli stessi milioni di autoveicoli. Un mare di petrolio senza il quale però i generatori piezoelettrici della Innowattech non potrebbero accendere neppure una lampadina, facendo si che scrostata la mano di vernice si finisca per ritornare al punto di partenza, laddove giace senza vita e senza senso il mito defunto della crescita infinita.
L’unica strada praticabile ha una sola corsia ed è anche a senso unico: ridurre la movimentazione schizofrenica delle merci e delle persone ed adottare sempre più massicciamente la filosofia del km zero, l’unica che permetta di accendere sempre e comunque la lampadina del buon senso.

lunedì 26 ottobre 2009

Saviano: La camorra alla conquista dei partiti in Campania

Fonte:
di Roberto Saviano, da Repubblica, 24 ottobre 2009

Quando un'organizzazione può decidere del destino di un partito controllandone le tessere, quando può pesare sulla presidenza di una Regione, quando può infiltrarsi con assoluta dimestichezza e altrettanta noncuranza in opposizione e maggioranza, quando può decidere le sorti di quasi sei milioni di cittadini, non ci troviamo di fronte a un'emergenza, a un'anomalia, a un "caso Campania". Ma al cospetto di una presa di potere già avvenuta della quale ora riusciamo semplicemente a mettere insieme alcuni segni e sintomi palesi.

Sembra persino riduttivo il ricorso alla tradizionale metafora del cancro: utile, forse, soprattutto per mostrare il meccanismo parassitario con cui avviene l'occupazione dello Stato democratico da parte di un sistema affaristico-politico-mafioso. Ora che le organizzazioni criminali decidono gli equilibri politici, è la politica ad essere chiamata a dare una risposta immediata e netta. Nicola Cosentino, attuale sottosegretario all'Economia e coordinatore del Pdl in Campania, fino a qualche giorno fa era l'indiscusso candidato alla presidenza della Regione. Nicola Cosentino, detto "o'mericano", è stato indicato da cinque pentiti come uomo organico agli interessi dei Casalesi: tra le deposizioni figurano quelle di Carmine Schiavone, cugino di Sandokan, nonché di Dario de Simone, altro ex capo ma soprattutto uno dei pentiti che si sono rivelati fra i più affidabili al processo Spartacus.

Per ora non ci sono cause pendenti sulla sua testa e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono al vaglio della magistratura. Nicola Cosentino si difende affermando di non poter essere accusato della sua nascita a Casal di Principe, né dei legami stretti anni fa da alcuni suoi familiari con esponenti del clan. Però da parte sua sono sempre mancate inequivocabili prese di distanza e questo, in un territorio come quello casertano, sarebbe già stato sufficiente per tenere sotto stretta sorveglianza la sua carriera politica. Invece l'ascesa di Cosentino non ha trovato ostacoli: da coordinatore provinciale a coordinatore regionale, da candidato alla Provincia di Caserta a sottosegretario dell'attuale governo. E solo ora che aspira alla carica di Governatore, finalmente qualcuno si sveglia e si chiede: chi è Nicola Cosentino? Perché solo ora si accorgono che non è idoneo come presidente di regione?

Perché si è permesso che l'unico sviluppo di questi territori fosse costruire mastodontici centri commerciali (tra cui il Centro Campania, uno dei più grandi al mondo) che sistematicamente andavano ad ingrassare gli affari dei clan. Come ha dichiarato il capo dell'antimafia di Napoli Cafiero de Raho "è stato accertato che sarebbe stato imposto non solo il pagamento di tangenti per 450 mila euro (per ogni lavoro ndr) ma anche l'affidamento di subappalti in favore di ditte segnalate da Pasquale Zagaria". Lo stesso è accaduto con Ikea, che come denunciato al Senato nel 2004 è sorto su un terreno già confiscato al capocamorra Magliulo Vincenzo, e viene dallo Stato ceduto ad una azienda legata ai clan. Nulla può muoversi se il cemento dei clan non benedice ogni lavoro.

Secondo Gaetano Vassallo, il pentito dei rifiuti facente parte della fazione Bidognetti, Cosentino insieme a Luigi Cesaro, altro parlamentare Pdl assai potente, in zona controllava per il clan il consorzio Eco4, ossia la parte "semilegale" del business dell'immondizia che ha già chiesto il tributo di sangue di una vittima eccellente: Michele Orsi, uno dei fratelli che gestivano il consorzio, viene freddato a giugno dell'anno scorso in centro a Casal di Principe, poco prima che fosse chiamato a testimoniare a un processo. Il consorzio operava in tutto il basso casertano sino all'area di Mondragone dove sarebbe invece - sempre secondo il pentito Gaetano Vassallo - Cosimo Chianese, il fedelissimo di Mario Landolfi, ex uomo di An, a curare gli interessi del clan La Torre. Interessi che riguardano da un lato ciò che fa girare il danaro: tangenti e subappalti, nonché la prassi di sversare rifiuti tossici in discariche destinate a rifiuti urbani, finendo per rivestire di un osceno manto legale l'avvelenamento sistematico campano incominciato a partire dagli anni Novanta. Dall'altro lato assunzioni che garantiscono voti ossia stabilizzano il consenso e il potere politico.

Districare i piani è quasi impossibile, così come è impossibile trovare le differenze tra economia legale e economia criminale, distinguere il profilo di un costruttore legato ai clan ed un costruttore indipendente e pulito. Ed è impossibile distinguere fra destra e sinistra perché per i clan la sola differenza è quella che passa tra uomini avvicinabili, ovvero uomini "loro", e i pochi, troppo pochi e sempre troppo deboli esponenti politici che non lo sono. E, infine, è pura illusione pensare che possa esistere una gestione clientelare "vecchia maniera", ossia fondata certo su favori elargiti su larga scala, ma aliena dalla contaminazione con la camorra. Per quanto Clemente Mastella possa dichiarare: "Io non ho nessuna attinenza con i clan e vivo in una provincia dove questo fenomeno non c'è, o almeno non c'era fino a poco fa", sta di fatto che un filone dell'inchiesta sullo scandalo che ha investito lui, la sua famiglia e il suo partito sia ora al vaglio dell'Antimafia. I pubblici ministeri starebbero indagando sul business connesso alla tutela ambientale; si ipotizza il coinvolgimento oltre che degli stessi Casalesi anche del clan Belforte di Marcianise. Il tramite di queste operazioni sarebbe Nicola Ferraro, anch'egli nativo di Casal di Principe, consigliere regionale dell'Udeur, nonché segretario del partito in Campania. Di Ferraro, imprenditore nel settore dei rifiuti, va ricordato che alla sua azienda fu negato il certificato antimafia; ciò non gli ha impedito di fare carriera in politica. E questo è un fatto.

Di nuovo, non è l'aspetto folkloristico, la Porsche Cayenne comprata dal figlio di Mastella Pellegrino da un concessionario marcianisano attualmente detenuto al 416-bis, a dover attirare l'attenzione. L'aspetto più importante è vedere cos'è stato il sistema Mastella - un sistema che per trent'anni ha rappresentato la continuità della politica feudale meridionale - e che cosa è divenuto. Oggi, persino se le indagini giudiziarie dovessero dare esiti diversi, non si può fingere di non vedere che Ceppaloni confina con Casal di Principe o vi si sovrappone. E il nome di Casale qui non ha valenza solo simbolica, ma è richiamo preciso alla più potente, meglio organizzata e meglio diversificata organizzazione criminale della regione.

Per la camorra - abbiamo detto - destra e sinistra non esistono. Il Pd dovrebbe chiedersi, ad esempio, come è possibile che in un solo pomeriggio a Napoli aderiscano in seimila. Chi sono tutti quei nuovi iscritti, chi li ha raccolti, chi li ha mandati a fare incetta di tessere? Da chi è formata la base di un partito che a Napoli e provincia conta circa 60.000 tesserati, 10.000 in provincia di Caserta, 12.000 in quella di Salerno, 6.000 ciascuno nelle restanti province di Avellino e Benevento? Chiedersi se è normale che il solo casertano abbia più iscritti dell'intera Lombardia, se non sia curioso che in alcuni comuni alle recenti elezioni provinciali, i voti effettivamente espressi in favore del partito erano inferiori al numero delle tessere. Perché la dirigenza del Pd non è intervenuta subito su questo scandalo?

Che razza di militanti sono quelli che non vanno a votare, o meglio: vanno a votare solo laddove il loro voto serve? E quel che serve, probabilmente, è il voto alle primarie, soprattutto nella prima ipotesi che fosse accessibile solo ai membri tesserati. Questo è il sospetto sempre più forte, mentre altri fatti sono certezza. Come la morte di Gino Tommasino, consigliere comunale Pd di Castellammare di Stabia, ucciso nel febbraio dell'anno scorso da un commando di cui faceva parte anche un suo compagno di partito. O la presenza al matrimonio della nipote del ex boss Carmine Alfieri del sindaco di Pompei Claudio d'Alessio.

L'unica cosa da fare è azzerare tutto. Azzerare le dirigenze, interrompere i processi di selezione in corso, sia per la candidatura alla Regione che per le primarie del Pd, all'occorrenza invalidare i risultati. Non è più pensabile lasciare la politica in mano a chi la svende a interessi criminali o feudali. Non basta più affidare il risanamento di questa situazione all'azione del potere giudiziario. Non basterebbe neppure in un Paese in cui la magistratura non fosse al centro di polemiche e i tempi della giustizia non fossero lunghi come nel nostro. È la politica, solo la politica che deve assumersi la responsabilità dei danni che ha creato. Azzerare e non ricandidare più tutti quei politici divenuti potenti non sulle idee, non su carisma, non sui progetti ma sulle clientele, sul talento di riuscire a spartire posti e quindi ricevere voti.

Mentre la politica si disinteressava della mafia, la mafia si è interessata alla politica cooptandola sistematicamente. Ieri a Casapesenna, il paese di Michele Zagaria, è morto un uomo, un politico, il cui nome non è mai uscito dalle cronache locali. Si chiamava Antonio Cangiano, nel 1988 era vicesindaco e si rifiutò di far vincere un appalto a un'impresa legata al clan. Per questo gli tesero un agguato. Lo colpirono alla schiena, da dietro, in quattro, in piazza: non per ucciderlo ma solo per immobilizzarlo, paralizzarlo. Tonino Cangiano ha vissuto ventun'anni su una sedia a rotelle, ma non si è mai piegato. Non si è nemmeno perso d'animo quando tre anni fa coloro che riteneva responsabili di quel supplizio sono stati assolti per insufficienza di prove.

Se la politica, persino la peggiore, non vuole rassegnarsi ad essere mero simulacro, semplice stampella di un'altra gestione del potere, è ora che corra drasticamente ai ripari. Per mero istinto di sopravvivenza, ancora prima che per "questione morale". Non è impossibile. O testimonia l'immagine emblematica e reale di Tonino che negli anni aveva dovuto subire numerosi e dolorosi interventi terminati con l'amputazione delle gambe, un corpo dimezzato, ma il cui pensiero, la cui parola, la cui voglia di lottare continuava a prendersi ogni libertà di movimento. Un uomo senza gambe che cammina dritto e libero, questo è oggi il contrario di ciò che rappresentano il Sud e la Campania. È ciò da cui si dovrebbe finalmente ricominciare.

domenica 25 ottobre 2009

Grande opera di buon senso

Fonte:

di Domenico Finiguerra

Cassinetta di Lugagnano da oltre 7 anni si batte per evitare il saccheggio del territorio e la cementificazione che spesso (anzi, sempre) segue la realizzazione di grandi e faraoniche opere pubbliche.

Ma quella che verrà proposta giovedì 29 ottobre presso il Palazzo Comunale è una grande opera di buon senso, ideata da un cittadino milanese virtuoso, Giovanni Gronda. Una grande opera di buon senso che in quanto tale, evidentemente, non suscita gli stessi entusiasmi nella classe politica che adora Ponti, Tunnel, Tangenziali, Autosrade, Poli logistici.

Dal Lago Maggiore al Lago di Como, passando da Cassinetta di Lugagnano…

Proviamo a lanciarla, chissà che qualche sottosegretario o assessore provinciale o regionale, tra uno svincolo autostrale e una galleria di base, non trovi il tempo di occuparsi di una proposta semplice, ecologica, umana…

La “GRANDEGRONDA”, il progetto di un completo percorso ciclabile che, sfruttando buona parte dei tracciati già esistenti, permette di collegare il Lago Maggiore con il Lago di Como passando per il centro di Milano, coinvolgendo ben trenta comuni lombardi:

Sesto Calende, Somma Lombardo, Vizzola Ticino, Nosate, Turbigo, Boffalora sopra Ticino, Robecco sul Naviglio, Cassinetta di Lugagnano, Albairate, Cisliano, Bareggio, Cornaredo, MILANO, Vimodrone, Cernusco sul Naviglio, Cassina de’ Pecchi, Gorgonzola, Bellinzago Lombardo, Inzago, Cassano d’Adda, Vaprio d’Adda, Trezzo sull’Adda, Cornate d’Adda, Paderno d’Adda, Robbiate, Imbersago, Brivio, Olginate, Vercurago, LECCO

Il percorso, di 170 km, si sviluppa su percorsi ciclabili già tracciati lungo fiumi e canali lombardi (Ticino, Naviglio Grande, Canale Scolmatore, Martesana e Adda), ma attualmente risulta interrotto solo in brevi tratti.

Lo scopo del progetto, quindi, è riuscire a rendere davvero fruibili questi 170 chilometri per i ciclisti, creando così le condizioni affinchè il tragitto sia “sfruttabile” dal punto di vista ciclo-turistico: opere idriche, canali, fiumi, laghi, parchi, opere di Leonardo e dell’ingegno lombardo, ville, giardini e cascine sono alcune delle bellezze che rendono vario e interessante il percorso.

mercoledì 21 ottobre 2009

La Marcegaglia ha perso le staffe

Fonte:


Marco Cedolin
Posta di fronte alle "belle parole" pronunciate ieri dal ministro Tremonti, riguardo al valore della stabilità nel lavoro, come contraltare della flessibilità che limita le prospettive dei lavoratori, nuoce alla famiglia e mina la stabilità sociale, Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, a capo di un impero industriale (e non solo) il cui fatturato è superiore al PIL di molti stati africani, si è ritrovata in palese difficoltà.
Difficoltà che è andata aumentando a seguito dell’appoggio dato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (da lei stessa invitato pochi giorni fa nel continuare serenamente il proprio lavoro fino alla fine della legislatura) alle parole di Tremonti e dalla disponibilità offerta dalla
CGIL all’apertura di un tavolo di confronto con il governo, all’interno del quale affrontare questi temi senza perdere altro tempo.

Visibilmente contrariata da tanti atti di lesa maestà, più che seriamente preoccupata delle conseguenze di quelle che con tutta probabilità resteranno solo parole, Emma Marcegaglia, vera rappresentante di quella grande imprenditoria parassitaria che da 60 anni in Italia costruisce profitti miliardari socializzando le perdite e privatizzando gli utili, trovando anche il tempo per accumulare processi, condanne e patteggiamenti, è sbottata producendosi in esternazioni di fantasia non proprio aderenti alla realtà.

“Riteniamo che la cultura del posto fisso è un ritorno al passato non possibile, che peraltro in questo Paese ha creato problemi”. Così ha esordito la Marcegaglia, evidentemente abituata a giudicare ciò che è giusto o sbagliato unicamente sulla base dei propri interessi, nonché intenzionata a considerare quelli che eventualmente sono suoi problemi come “problemi del paese”.
Per poi aggiungere
“Ovviamente nessuno è a favore della precarietà e insicurezza in un momento come questo, in particolare. Però noi siamo per la stabilità delle imprese e dei posti di lavoro che peraltro non si fa per legge”. Senza darci modo di comprendere per quale arcana ragione la precarietà costruita ad hoc attraverso le leggi Treu e Biagi, non potrebbe venire smantellata con gli stessi strumenti con cui è stata realizzata.
E ancora
“Serve una flessibilità regolata e tutelata come quella fatta con Treu e Biagi che ha creato 3 milioni di posti di lavoro”. Sarebbe interessante a questo proposito essere ragguagliati dalla presidente di Confindustria in merito alle tutele introdotte dalle leggi Treu e Biagi, oltre che in merito alla “qualità” di quei 3 milioni di posti di lavoro interinali creati, che hanno determinato la perdita di una quantità almeno doppia di posti di lavoro “decenti” a tempo indeterminato.
Per poi concludere con l’ormai abituale richiesta di prebende, sussidi e danaro pubblico da gettare nel buco nero della cassa integrazione
“Noi siamo quindi dell'idea che bisogna investire in ammortizzatori, formazione e in un migliore incontro tra domanda e offerta come indicato nel libro bianco del ministro Sacconi”.
Brutte parole insomma, che a conti fatti peseranno certamente molto più di quelle di Tremonti, dal momento che la grande imprenditoria parassitaria ed i think thank ad essa collegati, continuano a dirigere l’operato delle marionette politiche, identificando i propri interessi con quelli del Paese, a palese dimostrazione di quale sia in realtà l’unico interesse che conta.

lunedì 19 ottobre 2009

Anche le Iene non ridono più

Fonte:
di Peter Gomez, da Il Fatto 18 ottobre 2009

C’erano una volta le Iene, un gruppo di ragazzacci che osava ridere in faccia a Berlusconi, mostrare il razzismo della Lega e sbeffeggiare le leggi ad personam. C’erano, ma non ci sono più.

Oggi la trasmissione diretta da Davide Parenti, coautore con Antonio Ricci degli show-cult degli anni 80, è solo l’ombra del suo passato. È in crisi di ascolti, di creatività.

E, quel che è peggio, è costretta a fermarsi persino davanti a onorevoli di seconda fila, come Gabriella Carlucci.

È successo martedì scorso quando, dopo una serie di telefonate con i vertici Mediaset, non è andato in onda un servizio che raccontava come l’ex conduttrice fosse stata condannata a pagare 10 mila euro di stipendio arretrato alla sua portaborse parlamentare. Stessa sorte era toccata, un mese fa, a un pezzo sull’immigrazione che metteva in imbarazzo il ministro Roberto Maroni.

Per questo, Fedele Confalonieri e Silvio Berlusconi, che fino a ieri citavano le Iene e Enrico Mentana come la prova della libertà di mediaset, oggi parlano d’altro. Le foglie di fico non servono più. Il regime non si nasconde per farsi accettare, ma in televisione mostra il volto peggiore per far paura. I tempi, insomma, sono cambiati. Anche nel 2001 il premier era sotto processo per corruzione. Anche allora c’era un giornalista che pedinava un magistrato considerato nemico del gruppo.

Era la Iena Alessandro Sortino. Ma non seguiva Ilda Boccassini, per mostrare le sue calze o per insinuare che fosse “strana”. Lo faceva per dimostrare che era indifesa e per criticare la scelta del Governo di togliere la scorta a un pm antimafia che aveva osato mettersi contro Berlusconi.

Cose di un altro mondo. Allora i vertici mediaset tolleravano che il solito Sortino inchiodasse il senatore Cirami all’omonima legge ad personam o il ministro Lunardi al suo conflitto d’interessi. Adesso è più probabile vedere una Iena sulla luna che davanti al ministro Angelino Alfano per parlare del suo Lodo. Anche allora Berlusconi inondava l’Italia di propaganda, ma il Trio Medusa osava chiedergli conto del celebre “Presidente operaio”, per poi ridergli in faccia. Anche allora l’onorevole Carlucci ebbe un corpo a corpo con il Trio. Ma quello andò in onda.

Come si è arrivati a questo punto? Per capirlo bisogna ricostruire l’escalation delle censure, partendo dalla prima. Quella subita dal programma nel 2001, quando Marco Tronchetti Provera, per fare un favore a Berlusconi, soffoca nella culla “La 7” che minaccia di danneggiare gli ascolti di Mediaset. Le Iene riprendono Tronchetti mentre balbetta improbabile giustificazioni. Il pezzo però viene fermato. In redazione si mugugna, ma si decide di lasciar correre. Così la situazione peggiora. Tanto che, quattro anni dopo, si arriva a una silenziosa protesta. Quando a essere bloccato è un servizio su Francesco Storace, le Iene si riuniscono a Roma e stipulano una sorta di patto: non diciamo niente, ma questa è l’ultima censura. Era invece l’’inizio della fine.

Oggi il Trio Medusa e Sortino non ci sono più. Alla Iena rossa, nel 2007, i vertici Mediaset avevano cancellato un servizio su Mastella e lui se ne è andato. Confalonieri, infatti, non ha voluto sentir ragioni nonostante che proprio Sortino fosse stato diffamato dal figlio di Mastella con false insinuazioni sulla sua carriera. A Segrate, del resto, Mastella è un intoccabile. Lo sa anche Enrico Lucci che, già prima di Sortino, ha dovuto ingoiare la censura di un pezzo sul medesimo politico. Il perché lo dice la cronaca. Mastella in quei mesi stoppa la legge Gentiloni sulle tv e poi fa cadere il governo Prodi. Una scelta politica, ovviamente. La decisione di un uomo, oggi eurodeputato Pdl, che dice con orgoglio: “Confalonieri? È uno dei miei migliori amici”. E chi trova un amico (di Confalonieri) trova un tesoro. Anche alle Iene.

Le merci non salgono sul treno

Fonte:

In Italia, nonostante i proclami e le ipotesi di fantasia, negli ultimi anni le merci “sul treno” continuano a non salire: la percentuale di quelle trasportate su ferrovia nel nostro paese è del 9,9% , nettamente inferiore a quella degli altri paesi europei. Questo, sostanzialmente, a causa dell’assoluta mancanza di volontà, da parte delle Ferrovie di Stato, di costruire un servizio di trasporto merci efficiente, che sia in grado di rivelarsi competitivo rispetto alla gomma.


di
Marco Cedolin

treni
In Italia negli ultimi anni le merci “sul treno” continuano a non salire
L’aspirazione di spostare la movimentazione di una parte delle merci circolanti in Italia dalla gomma al ferro è stata, nell’ultimo decennio, un proposito tanto propagandato (dalle fonti più svariate) quanto scarsamente messo in pratica.

La velleità di operare il trasferimento modale gomma/ferro è stata il cavallo di battaglia usato dalle FS di Moretti (con la complicità di alcune associazioni ambientaliste) per tentare di giustificare la costruzione di nuove linee ferroviarie per i treni ad alta velocità. Linee pagate a peso d’oro, sulle quali (Moretti lo sa bene) le merci non transiteranno mai per tutta una serie di ragioni tecniche economiche e logistiche.

Il trasferimento modale gomma/ferro è stato il fulcro intorno al quale, attraverso il Libro Bianco dei trasporti del 2001, la UE ha costruito la politica dei trasporti dei decenni futuri, costituita da un lungo elenco di cementificazioni indiscriminate, unito a qualche soluzione interessante concernente il migliore sfruttamento delle vie d’acqua.

In Italia, nonostante i proclami e le ipotesi di fantasia, negli ultimi anni le merci “sul treno” continuano a non salire, anzi sembrano perfino scendere in maniera sempre più marcata, come accaduto in Sardegna dove dallo scorso 24 luglio è stato soppresso il servizio di trasporto merci (treno più nave) da e per l’isola, consegnando di fatto l’intero traffico merci nelle mani delle ditte di autotrasporto privato e compromettendo il futuro di oltre 300 lavoratori.

treno merci
La percentuale delle merci trasportate su ferrovia nel nostro paese è del 9,9%, nettamente inferiore a quella degli altri paesi europei
Un recente articolo comparso su Repubblica, all’interno del quale viene annunciata la due-giorni dal titolo “Mercintreno” che Federmobilità organizzerà a Roma il 19 e 20 novembre, fotografa in maniera abbastanza corretta la situazione.

La percentuale delle merci trasportate su ferrovia nel nostro paese è del 9,9%, nettamente inferiore a quella degli altri paesi europei (Inghilterra 11,8%, Francia 15,7%, Germania 21,4%, media europea intorno al 17%) e risulta essere progressivamente in calo.

Questo, sostanzialmente, a causa dell’assoluta mancanza di volontà da parte delle Ferrovie di Stato di costruire un servizio di trasporto merci efficiente, che sia in grado di rivelarsi competitivo rispetto alla gomma consentendo alla ferrovia di raggiungere il 20/25% dell’intero volume di merci trasportate, limite massimo raggiungibile secondo il parere degli esperti per il trasporto merci su ferro in Italia, a fronte di un’offerta di servizio ottimale.

Assoluta mancanza di volontà che, nonostante convegni e seminari organizzati sulla falsariga di “Mercintreno” tentino in qualche misura di offrire spunti in direzione differente, sembra perdurare anche in propensione futura all’interno delle FS.

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L’efficienza del servizio merci prescinde completamente dai progetti concernenti l’alta velocità
Anche se le prospettive non sembrano certo rosee, non ci resta comunque che auspicare un profondo ripensamento da parte diMoretti riguardo all’impegno da profondere nella costruzione di un servizio merci efficiente e competitivo.

Ci preme però sottolineare come l’efficienza del servizio merci prescinda completamente dai progetti concernenti l’alta velocità altrimenti si finisce per fare confusione, correndo il rischio di equivocare, così come intervistato nel succitato articolo di Repubblica, ha evidentemente equivocato il responsabile trasporti di Legambiente Edoardo Zanchini. Quando afferma “in Italia non si è fatto e non si fa nulla. La Francia ha invece intenzione di investire sulle merci per ferrovia, tanto che alcuni treni Tgv sono stati appositamente adibiti per garantire alle derrate stesse viaggi rapidi ed efficienti.”

Per onore d’informazione occorre infatti ricordare, a Legambiente ed a Zanchini, come sia le zucchine che i container non hanno certo necessità di viaggiare ai 300 km/h, bensì di essere gestiti durante l’intera loro movimentazione in maniera efficiente, sicura e puntuale. E come (documentato in articolo della stessa Repubblica) l’azienda ferroviaria francese Sncf, da lui presa a mo di esempio, si trovi attualmente in gravi ambasce proprio a causa della mancanza di utili derivanti dall’alta velocità.

Gravi ambasce che sembra non le permettano di rinnovare, come sarebbe invece necessario, il materiale rotabile relativo ai Tgv e si trovi pertanto al momento indisponibile ad ospitare sugli stessi Tgv derrate alimentari di qualsivoglia sorta.

Effe Corta, dalle parole ai fatti, il nuovo negozio a filiera corta

Fonte:

Ecologia, sostenibilità... Spesso è difficile rendere concreti concetti molto belli come questi. Filiera corta e prodotti alla spina sono state le prime sperimentazioni insieme ai mercati del contadino, al latte crudo e ai detersivi alla spina, per rendere reali queste idee. Ma trovare realtà commerciali che adottino in modo sistematico questi due principi è un'impresa. Qualcuno che ci sta provando c'è, stiamo parlando di Effe Corta, un negozio di Marlia di Capannori, in provincia di Lucca, uno dei Comuni Virtuosi.


di
Martina Turola

staff effe corta negozio capannori
Lo staff di Effe Corta al lavoro
Dalla distribuzione alla spina di latte crudo, attività in cui creatori di Effe Corta erano coinvolti attraverso un'associazione, al nuovo negozio a filiera corta il passo è stato....non così breve.

In Italia, infatti, non esistevano esempi del genere a cui rifarsi. Ce lo raccontano proprio gli animatori di Effe Corta che siamo andati a trovare assieme ad alcuni membri dell'associazione Movimento impatto Zero di Cesena e della lista civica DestinAzione Forlì.

Il “concept” Effe Corta è associare la vendita dello sfuso alla filiera corta, selezionando quindi solo prodotti di buona qualità provenienti dalla propria area geografica, per quanto possibile. La rintracciabilità dei prodotti è garantita da una cartina appesa al muro, a cui sono stati punzonati spilloni numerati che identificano la provenienza specifica di ogni prodotto.

Il negozio si propone come “un'evoluzione del classico alimentari che non può più vendere le stesse cose della grande distribuzione, che a sua volta non riuscirà mai a fare la filiera corta”.

Essendo un progetto così nuovo, ci sono tante soluzioni da trovare e sperimentare.

cibo alla spina effe corta
Cibo per animali alla spina
Prima cosa: intercettare i giusti contenitori per il negozio, gli erogatori da cui vengono dispensati i vari prodotti. Non ci crederete, ma vengono dall'America, perché inItalia non si reperiscono tanto facilmente.

Ma sono proprio questi contenitori trasparenti, riempiti dei prodotti freschi in vendita - più di 100 in totale - a dare al negozio un tocco di colore e vivacità. Esplorando gli scaffali, troverete, accanto a cereali, vari tipi di pasta, caramelle sfuse, verdure ecc.., anche cibo per animali: cani, gatti, canarini!

Passando alla stanza accanto ci sono invece olio, birra, vino, grappa, detersivi e detergenti per l'igiene personale, biodegradabili e anch'essi a filiera corta (provenienti dal raggio di 70 km). E qui sono arrivati i primi problemi di rodaggio, perché alcuni detersivi non sono compatibili con le pompe che li regolano e poi vanno scelti quelli che non si sedimentano.

Un altro aspetto che deve essere perfezionato sulla base dell'esperienza è lagestione delle scorte, dal momento che bisogna capire quali sono i prodotti che “girano” di più. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, infatti, il negozio non ha un magazzino dove vengono conservate le scorte. Sotto gli scaffali dove vengono esposti i prodotti ci sono dei sacchi che garantiscono un minimo di ricambio mano a mano che il prodotto viene venduto: questo perché si vuole mantenere sempre una certa freschezza con rifornimenti continuida parte dei fornitori.

scorte negozio effe corta
Il sistema di scorta di Effe Corta
C'è anche uno sportello ambiente, in cui vengono esposte le offerte di un'azienda locale che effettua interventi di riqualificazione energetica, di installazione di impianti fotovoltaici ed eolici e altre soluzioni tipiche di questo settore. Per ogni nuovo cliente acquisito attraverso il negozio, l'azienda energetica riconosce una piccola percentuale ad Effe Corta.

Risulta abbastanza evidente che il lavoro dietro a tutto questo è molto. Non per niente vi sono coinvolte 6 persone, anche se per 5 di esse Effe Corta rappresenta un doppio lavoro che permette di sfruttare le competenze acquisite attraverso la propria occupazione principale. Quali? Cercare bandi di concorso, attivarsi sui permessi, sviluppare strategie promozionali, creare un sito web.

Quello su cui c'è ancora molto da lavorare è l'aspetto normativo, non per incompetenza di Effe Corta, ma più che altro per la mancanza di norme specifiche che regolano alcune attività del negozio, così nuove nel loro settore da non essere state mai coperte neanche dalle autorità competenti.

L'imbottigliamento dell'olio, ad esempio, o le bottiglie di vino che i clienti riportano per essere riempite, che necessitano di essere pulite e “sanificate”, un procedimento un po' tortuoso che forse potrebbe essere reso più snello.

Sorgono spontanee domande sull'aspetto economico dell'attività. Qual è stato l'investimento iniziale? Come sta andando ora l'attività a quasi due mesi dall'inaugurazione, che si è tenuta il 29 agosto?

alimenti prodotti genuini effe corta
I segreti di un buon prodotto
“Nel primo mese non è andata male, abbiamo bilanciato i costi con le spese” - rispondono quelli di Effe Corta -. ”Alcuni membri dei Gruppi d'Acquisto Solidali (GAS) fanno la spesa qui perché il negozio, essendo una ditta, ha un potere contrattuale maggiore rispetto ai Gas; riesce a strappare prezzi migliori”.

Logico che, come per tutte le nuove imprese, ci vorrà un po' di tempo per rientrare dell'investimento iniziale, che è stato di 70.000 euro circa - ci raccontano - escluso l'immobile.

Non è stato così facile trovare qualcuno disposto a finanziare il progetto. Dopo aver vinto il bando provinciale “Linea di credito nuova impresa” però, i soldi sono arrivati.

Ma la cosa sconvolgente è stata il numero di mail che Effecorta ha ricevuto nei primi due giorni di apertura: 900. Quasi tutte di persone che chiedevano informazioni su come fare per aprire un'attività di questo tipo nel loro territorio. Tanto che i soci di Effe Corta vogliono stilare un vero e proprio codice etico che possa aiutare chi vuole replicare l'iniziativa. Hanno però deciso di aspettare fino a gennaio 2010 per renderlo disponibile, perché ritengono necessaria prima “un'assunzione di responsabilità personale per vedere se l'attività funziona economicamente”.

Sperando che sia così, potrebbe darsi che nel prossimo anno assisteremo alla nascita di un'associazione di tanti negozi a filiera corta, sparsi in modo capillare sul territorio italiano.

Già finito il miracolo cinese?

Fonte:

di Andrea Bertaglio

L’esponenziale crescita del PIL cinese ha subìto una battuta d’arresto tanto brusca quanto inattesa. Colpa della recessione di Stati Uniti ed Unione europea. Valeva davvero la pena per i cinesi abbandonare in massa le campagne per cedere alle tentazioni della società dei consumi ed a un’industrializzazione basata fino all’80% sulle esportazioni in Occidente? Indipendentemente dalla risposta a questo quesito, sono ora in molti a dover tornare sui propri passi.

Dopo aver speso gli ultimi anni sentendo parlare della Cina e di quanto esplosiva ed inarrestabile fosse la crescita della sua economia, ora potremmo iniziare ad abituarci a sentire discorsi che affermano esattamente l’opposto.

La crisi globale, in quanto tale, ha colpito ormai anche il colosso asiatico, il quale si ritrova migliaia di imprese che dipendono fino all’80% dalle esportazioni in Europa ed America, entrambe colpite, come ben sappiamo, dalla recessione.

È proprio questa l’origine del cortocircuito cinese: l’improvvisa frenata degli ordini di merce giunti dall’Occidente. A luglio le esportazioni sono infatti calate del 22,9%, ed anche in questi giorni molte fabbriche stanno chiudendo, dato che gli ordini che si attendevano per il Natale 2009 (elettrodomestici, high-tech, giocattoli, abbigliamento) non sono arrivati.

Questa inattesa battuta d’arresto ha provocato un calo del giro d’affari tra il 25 ed il 40%, venti milioni di “disoccupati made in Usa”, una deflazione con prezzi al consumo in picchiata (-1,8%) ed una drastica diminuzione (questo non è così un male, almeno dal punto di vista ambientale) dei consumi elettrici, in gran parte di origine industriale, arrivata al 48%.

A che cosa ha portato tutto ciò? Alla disfatta precoce di quella che stava diventando la nuova classe media ed al forzato ritorno all’agricoltura della metropolitanizzata “generazione Ikea”. Si, perché come scrive Giampaolo Visetti sulle pagine di Repubblica, mentre «il consumatore globale aspetta, l’ex coltivatore di riso cinese, che nel frattempo ha ceduto la sua terra, perde il posto». E ancora: «Si spopolano, e cadono in rovina, avveniristiche e sconfinate periferie urbane, appena costruite. Le campagne antiche dell’interno, rimaste prive di servizi, popolate di vecchi, scoppiano e si gonfiano di baracche».

Già finito, quindi, il miracolo cinese? Sembrerebbe così, stando al rientro di milioni di persone che hanno perso tutto (e che hanno bruscamente capito che solo la terra può garantire il sostentamento necessario anche quando la crisi economica diventa globale) e che coprono migliaia di chilometri per tornare da sconfitti in irriconoscibili luoghi d’origine, nel frattempo consacrati a loro volta allo “sviluppo”. Se all’Occidente sono serviti oltre sessant’anni per capire quanto false fossero le promesse della società dei consumi, ai cinesi ne sono bastati meno di dieci.

Ma è davvero così? Il messaggio del governo sembra perentorio: le previsioni di crescita occupazionale, parecchio ottimistiche anche in questo momento, sono una priorità e devono avverarsi. E speriamo sia così, perché , come dice Shi Xiao, direttore dell’Osservatorio sociale di Shanghai, «è il lavoro il vero nervo scoperto di questo potere. Ha puntato tutto sul denaro, facendo dimenticare al Paese i suoi diritti. Se fallisce sull’occupazione, il governo potrebbe presto sentirsi rivolgere domande sulla democrazia».

I nuovi disoccupati della costa meridionale della Cina continentale e in particolare provenienti dal Guangdong, spaventano molto più di tibetani e uiguri (altra minoranza etnica turcofona ed islamica che vive nel nord-ovest del Paese), poiché da minoranza gli ex operai disoccupati potrebbero diventare maggioranza ed incrinare “il trionfante nazionalismo capitalista degli han”.

A chi invece un lavoro in questi ultimi mesi è rimasto (spesso in cambio di “anticipi retributivi” fornite alle ditte, con la promessa di riceverli entro quattro anni – cioè pagando per lavorare!), lo stipendio medio è calato di oltre il 5%, portando la media nazionale a 160 euro al mese. Nessuno in Cina si aspettava questi tagli occupazionali in imprese privatizzate per il 95% negli ultimi trent’anni, e dei 225 milioni di contadini cinesi che dal 2000 ad oggi si sono trasformati in operai, come già detto, venti sono dovuti tornare sui propri passi.

Sarà l’inizio di una riconversione virtuosa della società e dell’economia cinese, già svegliatasi da una sorta di sogno (bello o brutto a seconda dei casi), o semplicemente l’inizio della fine di questa nuova Cina che, chiamata dagli Usa a “salvare il mondo”, non riuscirà nemmeno a salvare se stessa? Le previsioni non fanno ben sperare, perché evidentemente è stato molto più facile adattarsi agli stili di vita occidentali (o presunti tali), che non ri-abituarsi alla vita rurale di origine.

Forse l’unica cosa di cui hanno bisogno i cinesi è ottimismo.

Un po’ come per gli italiani che possono far fronte alla crisi con un rilancio dei consumi da praticare con un bel sorriso stampato in faccia. E se lo possiamo fare noi, figuriamoci i cinesi, ancora galvanizzati dall’euforia di una crescita economica mai vista prima.

Nello sfacelo cinese in corso, infatti, gli unici dati in crescita riguardano la vendita di automobili (+63,6% solo nel mese di luglio), grazie agli incentivi dello Stato ed agli sconti fiscali che possano tenere in piedi, ancora per un po’, il “miracolo cinese” ed il perentorio ordine di una crescita occupazionale che già non c’è più.