mercoledì 21 ottobre 2009

La Marcegaglia ha perso le staffe

Fonte:


Marco Cedolin
Posta di fronte alle "belle parole" pronunciate ieri dal ministro Tremonti, riguardo al valore della stabilità nel lavoro, come contraltare della flessibilità che limita le prospettive dei lavoratori, nuoce alla famiglia e mina la stabilità sociale, Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, a capo di un impero industriale (e non solo) il cui fatturato è superiore al PIL di molti stati africani, si è ritrovata in palese difficoltà.
Difficoltà che è andata aumentando a seguito dell’appoggio dato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (da lei stessa invitato pochi giorni fa nel continuare serenamente il proprio lavoro fino alla fine della legislatura) alle parole di Tremonti e dalla disponibilità offerta dalla
CGIL all’apertura di un tavolo di confronto con il governo, all’interno del quale affrontare questi temi senza perdere altro tempo.

Visibilmente contrariata da tanti atti di lesa maestà, più che seriamente preoccupata delle conseguenze di quelle che con tutta probabilità resteranno solo parole, Emma Marcegaglia, vera rappresentante di quella grande imprenditoria parassitaria che da 60 anni in Italia costruisce profitti miliardari socializzando le perdite e privatizzando gli utili, trovando anche il tempo per accumulare processi, condanne e patteggiamenti, è sbottata producendosi in esternazioni di fantasia non proprio aderenti alla realtà.

“Riteniamo che la cultura del posto fisso è un ritorno al passato non possibile, che peraltro in questo Paese ha creato problemi”. Così ha esordito la Marcegaglia, evidentemente abituata a giudicare ciò che è giusto o sbagliato unicamente sulla base dei propri interessi, nonché intenzionata a considerare quelli che eventualmente sono suoi problemi come “problemi del paese”.
Per poi aggiungere
“Ovviamente nessuno è a favore della precarietà e insicurezza in un momento come questo, in particolare. Però noi siamo per la stabilità delle imprese e dei posti di lavoro che peraltro non si fa per legge”. Senza darci modo di comprendere per quale arcana ragione la precarietà costruita ad hoc attraverso le leggi Treu e Biagi, non potrebbe venire smantellata con gli stessi strumenti con cui è stata realizzata.
E ancora
“Serve una flessibilità regolata e tutelata come quella fatta con Treu e Biagi che ha creato 3 milioni di posti di lavoro”. Sarebbe interessante a questo proposito essere ragguagliati dalla presidente di Confindustria in merito alle tutele introdotte dalle leggi Treu e Biagi, oltre che in merito alla “qualità” di quei 3 milioni di posti di lavoro interinali creati, che hanno determinato la perdita di una quantità almeno doppia di posti di lavoro “decenti” a tempo indeterminato.
Per poi concludere con l’ormai abituale richiesta di prebende, sussidi e danaro pubblico da gettare nel buco nero della cassa integrazione
“Noi siamo quindi dell'idea che bisogna investire in ammortizzatori, formazione e in un migliore incontro tra domanda e offerta come indicato nel libro bianco del ministro Sacconi”.
Brutte parole insomma, che a conti fatti peseranno certamente molto più di quelle di Tremonti, dal momento che la grande imprenditoria parassitaria ed i think thank ad essa collegati, continuano a dirigere l’operato delle marionette politiche, identificando i propri interessi con quelli del Paese, a palese dimostrazione di quale sia in realtà l’unico interesse che conta.

lunedì 19 ottobre 2009

Anche le Iene non ridono più

Fonte:
di Peter Gomez, da Il Fatto 18 ottobre 2009

C’erano una volta le Iene, un gruppo di ragazzacci che osava ridere in faccia a Berlusconi, mostrare il razzismo della Lega e sbeffeggiare le leggi ad personam. C’erano, ma non ci sono più.

Oggi la trasmissione diretta da Davide Parenti, coautore con Antonio Ricci degli show-cult degli anni 80, è solo l’ombra del suo passato. È in crisi di ascolti, di creatività.

E, quel che è peggio, è costretta a fermarsi persino davanti a onorevoli di seconda fila, come Gabriella Carlucci.

È successo martedì scorso quando, dopo una serie di telefonate con i vertici Mediaset, non è andato in onda un servizio che raccontava come l’ex conduttrice fosse stata condannata a pagare 10 mila euro di stipendio arretrato alla sua portaborse parlamentare. Stessa sorte era toccata, un mese fa, a un pezzo sull’immigrazione che metteva in imbarazzo il ministro Roberto Maroni.

Per questo, Fedele Confalonieri e Silvio Berlusconi, che fino a ieri citavano le Iene e Enrico Mentana come la prova della libertà di mediaset, oggi parlano d’altro. Le foglie di fico non servono più. Il regime non si nasconde per farsi accettare, ma in televisione mostra il volto peggiore per far paura. I tempi, insomma, sono cambiati. Anche nel 2001 il premier era sotto processo per corruzione. Anche allora c’era un giornalista che pedinava un magistrato considerato nemico del gruppo.

Era la Iena Alessandro Sortino. Ma non seguiva Ilda Boccassini, per mostrare le sue calze o per insinuare che fosse “strana”. Lo faceva per dimostrare che era indifesa e per criticare la scelta del Governo di togliere la scorta a un pm antimafia che aveva osato mettersi contro Berlusconi.

Cose di un altro mondo. Allora i vertici mediaset tolleravano che il solito Sortino inchiodasse il senatore Cirami all’omonima legge ad personam o il ministro Lunardi al suo conflitto d’interessi. Adesso è più probabile vedere una Iena sulla luna che davanti al ministro Angelino Alfano per parlare del suo Lodo. Anche allora Berlusconi inondava l’Italia di propaganda, ma il Trio Medusa osava chiedergli conto del celebre “Presidente operaio”, per poi ridergli in faccia. Anche allora l’onorevole Carlucci ebbe un corpo a corpo con il Trio. Ma quello andò in onda.

Come si è arrivati a questo punto? Per capirlo bisogna ricostruire l’escalation delle censure, partendo dalla prima. Quella subita dal programma nel 2001, quando Marco Tronchetti Provera, per fare un favore a Berlusconi, soffoca nella culla “La 7” che minaccia di danneggiare gli ascolti di Mediaset. Le Iene riprendono Tronchetti mentre balbetta improbabile giustificazioni. Il pezzo però viene fermato. In redazione si mugugna, ma si decide di lasciar correre. Così la situazione peggiora. Tanto che, quattro anni dopo, si arriva a una silenziosa protesta. Quando a essere bloccato è un servizio su Francesco Storace, le Iene si riuniscono a Roma e stipulano una sorta di patto: non diciamo niente, ma questa è l’ultima censura. Era invece l’’inizio della fine.

Oggi il Trio Medusa e Sortino non ci sono più. Alla Iena rossa, nel 2007, i vertici Mediaset avevano cancellato un servizio su Mastella e lui se ne è andato. Confalonieri, infatti, non ha voluto sentir ragioni nonostante che proprio Sortino fosse stato diffamato dal figlio di Mastella con false insinuazioni sulla sua carriera. A Segrate, del resto, Mastella è un intoccabile. Lo sa anche Enrico Lucci che, già prima di Sortino, ha dovuto ingoiare la censura di un pezzo sul medesimo politico. Il perché lo dice la cronaca. Mastella in quei mesi stoppa la legge Gentiloni sulle tv e poi fa cadere il governo Prodi. Una scelta politica, ovviamente. La decisione di un uomo, oggi eurodeputato Pdl, che dice con orgoglio: “Confalonieri? È uno dei miei migliori amici”. E chi trova un amico (di Confalonieri) trova un tesoro. Anche alle Iene.

Le merci non salgono sul treno

Fonte:

In Italia, nonostante i proclami e le ipotesi di fantasia, negli ultimi anni le merci “sul treno” continuano a non salire: la percentuale di quelle trasportate su ferrovia nel nostro paese è del 9,9% , nettamente inferiore a quella degli altri paesi europei. Questo, sostanzialmente, a causa dell’assoluta mancanza di volontà, da parte delle Ferrovie di Stato, di costruire un servizio di trasporto merci efficiente, che sia in grado di rivelarsi competitivo rispetto alla gomma.


di
Marco Cedolin

treni
In Italia negli ultimi anni le merci “sul treno” continuano a non salire
L’aspirazione di spostare la movimentazione di una parte delle merci circolanti in Italia dalla gomma al ferro è stata, nell’ultimo decennio, un proposito tanto propagandato (dalle fonti più svariate) quanto scarsamente messo in pratica.

La velleità di operare il trasferimento modale gomma/ferro è stata il cavallo di battaglia usato dalle FS di Moretti (con la complicità di alcune associazioni ambientaliste) per tentare di giustificare la costruzione di nuove linee ferroviarie per i treni ad alta velocità. Linee pagate a peso d’oro, sulle quali (Moretti lo sa bene) le merci non transiteranno mai per tutta una serie di ragioni tecniche economiche e logistiche.

Il trasferimento modale gomma/ferro è stato il fulcro intorno al quale, attraverso il Libro Bianco dei trasporti del 2001, la UE ha costruito la politica dei trasporti dei decenni futuri, costituita da un lungo elenco di cementificazioni indiscriminate, unito a qualche soluzione interessante concernente il migliore sfruttamento delle vie d’acqua.

In Italia, nonostante i proclami e le ipotesi di fantasia, negli ultimi anni le merci “sul treno” continuano a non salire, anzi sembrano perfino scendere in maniera sempre più marcata, come accaduto in Sardegna dove dallo scorso 24 luglio è stato soppresso il servizio di trasporto merci (treno più nave) da e per l’isola, consegnando di fatto l’intero traffico merci nelle mani delle ditte di autotrasporto privato e compromettendo il futuro di oltre 300 lavoratori.

treno merci
La percentuale delle merci trasportate su ferrovia nel nostro paese è del 9,9%, nettamente inferiore a quella degli altri paesi europei
Un recente articolo comparso su Repubblica, all’interno del quale viene annunciata la due-giorni dal titolo “Mercintreno” che Federmobilità organizzerà a Roma il 19 e 20 novembre, fotografa in maniera abbastanza corretta la situazione.

La percentuale delle merci trasportate su ferrovia nel nostro paese è del 9,9%, nettamente inferiore a quella degli altri paesi europei (Inghilterra 11,8%, Francia 15,7%, Germania 21,4%, media europea intorno al 17%) e risulta essere progressivamente in calo.

Questo, sostanzialmente, a causa dell’assoluta mancanza di volontà da parte delle Ferrovie di Stato di costruire un servizio di trasporto merci efficiente, che sia in grado di rivelarsi competitivo rispetto alla gomma consentendo alla ferrovia di raggiungere il 20/25% dell’intero volume di merci trasportate, limite massimo raggiungibile secondo il parere degli esperti per il trasporto merci su ferro in Italia, a fronte di un’offerta di servizio ottimale.

Assoluta mancanza di volontà che, nonostante convegni e seminari organizzati sulla falsariga di “Mercintreno” tentino in qualche misura di offrire spunti in direzione differente, sembra perdurare anche in propensione futura all’interno delle FS.

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L’efficienza del servizio merci prescinde completamente dai progetti concernenti l’alta velocità
Anche se le prospettive non sembrano certo rosee, non ci resta comunque che auspicare un profondo ripensamento da parte diMoretti riguardo all’impegno da profondere nella costruzione di un servizio merci efficiente e competitivo.

Ci preme però sottolineare come l’efficienza del servizio merci prescinda completamente dai progetti concernenti l’alta velocità altrimenti si finisce per fare confusione, correndo il rischio di equivocare, così come intervistato nel succitato articolo di Repubblica, ha evidentemente equivocato il responsabile trasporti di Legambiente Edoardo Zanchini. Quando afferma “in Italia non si è fatto e non si fa nulla. La Francia ha invece intenzione di investire sulle merci per ferrovia, tanto che alcuni treni Tgv sono stati appositamente adibiti per garantire alle derrate stesse viaggi rapidi ed efficienti.”

Per onore d’informazione occorre infatti ricordare, a Legambiente ed a Zanchini, come sia le zucchine che i container non hanno certo necessità di viaggiare ai 300 km/h, bensì di essere gestiti durante l’intera loro movimentazione in maniera efficiente, sicura e puntuale. E come (documentato in articolo della stessa Repubblica) l’azienda ferroviaria francese Sncf, da lui presa a mo di esempio, si trovi attualmente in gravi ambasce proprio a causa della mancanza di utili derivanti dall’alta velocità.

Gravi ambasce che sembra non le permettano di rinnovare, come sarebbe invece necessario, il materiale rotabile relativo ai Tgv e si trovi pertanto al momento indisponibile ad ospitare sugli stessi Tgv derrate alimentari di qualsivoglia sorta.

Effe Corta, dalle parole ai fatti, il nuovo negozio a filiera corta

Fonte:

Ecologia, sostenibilità... Spesso è difficile rendere concreti concetti molto belli come questi. Filiera corta e prodotti alla spina sono state le prime sperimentazioni insieme ai mercati del contadino, al latte crudo e ai detersivi alla spina, per rendere reali queste idee. Ma trovare realtà commerciali che adottino in modo sistematico questi due principi è un'impresa. Qualcuno che ci sta provando c'è, stiamo parlando di Effe Corta, un negozio di Marlia di Capannori, in provincia di Lucca, uno dei Comuni Virtuosi.


di
Martina Turola

staff effe corta negozio capannori
Lo staff di Effe Corta al lavoro
Dalla distribuzione alla spina di latte crudo, attività in cui creatori di Effe Corta erano coinvolti attraverso un'associazione, al nuovo negozio a filiera corta il passo è stato....non così breve.

In Italia, infatti, non esistevano esempi del genere a cui rifarsi. Ce lo raccontano proprio gli animatori di Effe Corta che siamo andati a trovare assieme ad alcuni membri dell'associazione Movimento impatto Zero di Cesena e della lista civica DestinAzione Forlì.

Il “concept” Effe Corta è associare la vendita dello sfuso alla filiera corta, selezionando quindi solo prodotti di buona qualità provenienti dalla propria area geografica, per quanto possibile. La rintracciabilità dei prodotti è garantita da una cartina appesa al muro, a cui sono stati punzonati spilloni numerati che identificano la provenienza specifica di ogni prodotto.

Il negozio si propone come “un'evoluzione del classico alimentari che non può più vendere le stesse cose della grande distribuzione, che a sua volta non riuscirà mai a fare la filiera corta”.

Essendo un progetto così nuovo, ci sono tante soluzioni da trovare e sperimentare.

cibo alla spina effe corta
Cibo per animali alla spina
Prima cosa: intercettare i giusti contenitori per il negozio, gli erogatori da cui vengono dispensati i vari prodotti. Non ci crederete, ma vengono dall'America, perché inItalia non si reperiscono tanto facilmente.

Ma sono proprio questi contenitori trasparenti, riempiti dei prodotti freschi in vendita - più di 100 in totale - a dare al negozio un tocco di colore e vivacità. Esplorando gli scaffali, troverete, accanto a cereali, vari tipi di pasta, caramelle sfuse, verdure ecc.., anche cibo per animali: cani, gatti, canarini!

Passando alla stanza accanto ci sono invece olio, birra, vino, grappa, detersivi e detergenti per l'igiene personale, biodegradabili e anch'essi a filiera corta (provenienti dal raggio di 70 km). E qui sono arrivati i primi problemi di rodaggio, perché alcuni detersivi non sono compatibili con le pompe che li regolano e poi vanno scelti quelli che non si sedimentano.

Un altro aspetto che deve essere perfezionato sulla base dell'esperienza è lagestione delle scorte, dal momento che bisogna capire quali sono i prodotti che “girano” di più. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, infatti, il negozio non ha un magazzino dove vengono conservate le scorte. Sotto gli scaffali dove vengono esposti i prodotti ci sono dei sacchi che garantiscono un minimo di ricambio mano a mano che il prodotto viene venduto: questo perché si vuole mantenere sempre una certa freschezza con rifornimenti continuida parte dei fornitori.

scorte negozio effe corta
Il sistema di scorta di Effe Corta
C'è anche uno sportello ambiente, in cui vengono esposte le offerte di un'azienda locale che effettua interventi di riqualificazione energetica, di installazione di impianti fotovoltaici ed eolici e altre soluzioni tipiche di questo settore. Per ogni nuovo cliente acquisito attraverso il negozio, l'azienda energetica riconosce una piccola percentuale ad Effe Corta.

Risulta abbastanza evidente che il lavoro dietro a tutto questo è molto. Non per niente vi sono coinvolte 6 persone, anche se per 5 di esse Effe Corta rappresenta un doppio lavoro che permette di sfruttare le competenze acquisite attraverso la propria occupazione principale. Quali? Cercare bandi di concorso, attivarsi sui permessi, sviluppare strategie promozionali, creare un sito web.

Quello su cui c'è ancora molto da lavorare è l'aspetto normativo, non per incompetenza di Effe Corta, ma più che altro per la mancanza di norme specifiche che regolano alcune attività del negozio, così nuove nel loro settore da non essere state mai coperte neanche dalle autorità competenti.

L'imbottigliamento dell'olio, ad esempio, o le bottiglie di vino che i clienti riportano per essere riempite, che necessitano di essere pulite e “sanificate”, un procedimento un po' tortuoso che forse potrebbe essere reso più snello.

Sorgono spontanee domande sull'aspetto economico dell'attività. Qual è stato l'investimento iniziale? Come sta andando ora l'attività a quasi due mesi dall'inaugurazione, che si è tenuta il 29 agosto?

alimenti prodotti genuini effe corta
I segreti di un buon prodotto
“Nel primo mese non è andata male, abbiamo bilanciato i costi con le spese” - rispondono quelli di Effe Corta -. ”Alcuni membri dei Gruppi d'Acquisto Solidali (GAS) fanno la spesa qui perché il negozio, essendo una ditta, ha un potere contrattuale maggiore rispetto ai Gas; riesce a strappare prezzi migliori”.

Logico che, come per tutte le nuove imprese, ci vorrà un po' di tempo per rientrare dell'investimento iniziale, che è stato di 70.000 euro circa - ci raccontano - escluso l'immobile.

Non è stato così facile trovare qualcuno disposto a finanziare il progetto. Dopo aver vinto il bando provinciale “Linea di credito nuova impresa” però, i soldi sono arrivati.

Ma la cosa sconvolgente è stata il numero di mail che Effecorta ha ricevuto nei primi due giorni di apertura: 900. Quasi tutte di persone che chiedevano informazioni su come fare per aprire un'attività di questo tipo nel loro territorio. Tanto che i soci di Effe Corta vogliono stilare un vero e proprio codice etico che possa aiutare chi vuole replicare l'iniziativa. Hanno però deciso di aspettare fino a gennaio 2010 per renderlo disponibile, perché ritengono necessaria prima “un'assunzione di responsabilità personale per vedere se l'attività funziona economicamente”.

Sperando che sia così, potrebbe darsi che nel prossimo anno assisteremo alla nascita di un'associazione di tanti negozi a filiera corta, sparsi in modo capillare sul territorio italiano.

Già finito il miracolo cinese?

Fonte:

di Andrea Bertaglio

L’esponenziale crescita del PIL cinese ha subìto una battuta d’arresto tanto brusca quanto inattesa. Colpa della recessione di Stati Uniti ed Unione europea. Valeva davvero la pena per i cinesi abbandonare in massa le campagne per cedere alle tentazioni della società dei consumi ed a un’industrializzazione basata fino all’80% sulle esportazioni in Occidente? Indipendentemente dalla risposta a questo quesito, sono ora in molti a dover tornare sui propri passi.

Dopo aver speso gli ultimi anni sentendo parlare della Cina e di quanto esplosiva ed inarrestabile fosse la crescita della sua economia, ora potremmo iniziare ad abituarci a sentire discorsi che affermano esattamente l’opposto.

La crisi globale, in quanto tale, ha colpito ormai anche il colosso asiatico, il quale si ritrova migliaia di imprese che dipendono fino all’80% dalle esportazioni in Europa ed America, entrambe colpite, come ben sappiamo, dalla recessione.

È proprio questa l’origine del cortocircuito cinese: l’improvvisa frenata degli ordini di merce giunti dall’Occidente. A luglio le esportazioni sono infatti calate del 22,9%, ed anche in questi giorni molte fabbriche stanno chiudendo, dato che gli ordini che si attendevano per il Natale 2009 (elettrodomestici, high-tech, giocattoli, abbigliamento) non sono arrivati.

Questa inattesa battuta d’arresto ha provocato un calo del giro d’affari tra il 25 ed il 40%, venti milioni di “disoccupati made in Usa”, una deflazione con prezzi al consumo in picchiata (-1,8%) ed una drastica diminuzione (questo non è così un male, almeno dal punto di vista ambientale) dei consumi elettrici, in gran parte di origine industriale, arrivata al 48%.

A che cosa ha portato tutto ciò? Alla disfatta precoce di quella che stava diventando la nuova classe media ed al forzato ritorno all’agricoltura della metropolitanizzata “generazione Ikea”. Si, perché come scrive Giampaolo Visetti sulle pagine di Repubblica, mentre «il consumatore globale aspetta, l’ex coltivatore di riso cinese, che nel frattempo ha ceduto la sua terra, perde il posto». E ancora: «Si spopolano, e cadono in rovina, avveniristiche e sconfinate periferie urbane, appena costruite. Le campagne antiche dell’interno, rimaste prive di servizi, popolate di vecchi, scoppiano e si gonfiano di baracche».

Già finito, quindi, il miracolo cinese? Sembrerebbe così, stando al rientro di milioni di persone che hanno perso tutto (e che hanno bruscamente capito che solo la terra può garantire il sostentamento necessario anche quando la crisi economica diventa globale) e che coprono migliaia di chilometri per tornare da sconfitti in irriconoscibili luoghi d’origine, nel frattempo consacrati a loro volta allo “sviluppo”. Se all’Occidente sono serviti oltre sessant’anni per capire quanto false fossero le promesse della società dei consumi, ai cinesi ne sono bastati meno di dieci.

Ma è davvero così? Il messaggio del governo sembra perentorio: le previsioni di crescita occupazionale, parecchio ottimistiche anche in questo momento, sono una priorità e devono avverarsi. E speriamo sia così, perché , come dice Shi Xiao, direttore dell’Osservatorio sociale di Shanghai, «è il lavoro il vero nervo scoperto di questo potere. Ha puntato tutto sul denaro, facendo dimenticare al Paese i suoi diritti. Se fallisce sull’occupazione, il governo potrebbe presto sentirsi rivolgere domande sulla democrazia».

I nuovi disoccupati della costa meridionale della Cina continentale e in particolare provenienti dal Guangdong, spaventano molto più di tibetani e uiguri (altra minoranza etnica turcofona ed islamica che vive nel nord-ovest del Paese), poiché da minoranza gli ex operai disoccupati potrebbero diventare maggioranza ed incrinare “il trionfante nazionalismo capitalista degli han”.

A chi invece un lavoro in questi ultimi mesi è rimasto (spesso in cambio di “anticipi retributivi” fornite alle ditte, con la promessa di riceverli entro quattro anni – cioè pagando per lavorare!), lo stipendio medio è calato di oltre il 5%, portando la media nazionale a 160 euro al mese. Nessuno in Cina si aspettava questi tagli occupazionali in imprese privatizzate per il 95% negli ultimi trent’anni, e dei 225 milioni di contadini cinesi che dal 2000 ad oggi si sono trasformati in operai, come già detto, venti sono dovuti tornare sui propri passi.

Sarà l’inizio di una riconversione virtuosa della società e dell’economia cinese, già svegliatasi da una sorta di sogno (bello o brutto a seconda dei casi), o semplicemente l’inizio della fine di questa nuova Cina che, chiamata dagli Usa a “salvare il mondo”, non riuscirà nemmeno a salvare se stessa? Le previsioni non fanno ben sperare, perché evidentemente è stato molto più facile adattarsi agli stili di vita occidentali (o presunti tali), che non ri-abituarsi alla vita rurale di origine.

Forse l’unica cosa di cui hanno bisogno i cinesi è ottimismo.

Un po’ come per gli italiani che possono far fronte alla crisi con un rilancio dei consumi da praticare con un bel sorriso stampato in faccia. E se lo possiamo fare noi, figuriamoci i cinesi, ancora galvanizzati dall’euforia di una crescita economica mai vista prima.

Nello sfacelo cinese in corso, infatti, gli unici dati in crescita riguardano la vendita di automobili (+63,6% solo nel mese di luglio), grazie agli incentivi dello Stato ed agli sconti fiscali che possano tenere in piedi, ancora per un po’, il “miracolo cinese” ed il perentorio ordine di una crescita occupazionale che già non c’è più.

La saga del giornalismo vendicativo

Fonte:

19 ottobre 2009
Fermi tutti. C’è un nuovo scoop. Il Giornale di Vittorio Feltri ha “scoperto” cheCorrado Augias è stato una spia dei servizi cecoslovacchi fra il 1963 e il 1967. E così arrivano in pagina non uno ma ben due articoli, ben due puntate per indagare i segreti della fonte “Donat”, informatore coltivato al servizio del patto di Varsavia. La storia è così splendidamente ridicola, che meriterebbe di essere approfondita. A distanza di quarantanni, vicende come questa – lo abbiamo visto con il dossierMitrokhin – diventano paradossi storiografici, melma, falsi d’autore, indistinguibili miscele di verità e menzogna. Spesso una spia che vuole mettere una cena in nota spese si inventa una fonte. Dopo mezzo secolo la velina di quella cena salta fuori da un archivio o da una latrina, ed ecco che qualcuno si ritrova nel tritacarne.

Quello che mi interessa di più, però, è il fatto che si sia aperto un ulteriore capitolo nella recente saga che segna il passaggio dal giornalismo “investigativo” al giornalismo “vendicativo”. Non più un giornalismo che scrive le notizie perché le trova, o perché i fatti accadono, ma un giornalismo che deve cercare i fatti, farli accadere, riciclarli (o in casi estremi inventarli) perché c’è l’esigenza di colpire qualcuno. La casistica si allunga ogni giorno: Vittorio Feltri arriva al
Giornale ad agosto e apre le danze mettendo nel mirino il direttore di Avvenire Dino Boffo. Si scrive che è stato condannato per molestie e sospetto di omosessualità (non importa quando. Adesso torna utile dirlo). Ma quale è il suo peccato? Aver permesso che su Avvenire (che pure era di centrodestra!) si affacciasse qualche timida critica al premier. Il secondo atto è stato l’attacco al direttore di La Repubblica Ezio Mauro. Ha comprato o no una casa pagando una parte del suo acquisto in nero? Allora vada alla sbarra pure lui: il suo giornale è uno di quelli che ha scritto male del premier. E il giudice Mesiano? Si è permesso o no di esprimere un verdetto ostile al Cavaliere? Nella sua città precipitano gli angeli sterminatori del giornalismo vendicativo, e iniziano a setacciare tutto, dall’anagrafe alla barberia dove il magistrato si va a tagliare i capelli, alla ricerca di una pistola fumante.

Adesso si è arrivati ad Augias, nemmeno fosse
la Talpa di Le Carrè. Ma non tiene la rubrica della posta sul quotidiano di Largo Fochetti questo signore? Dunque anche lui è colpevole. Il giornalismo vendicativo è un genere sporco, e questo lo capiscono anche i sassi. E poi magari Augias è anche il padre della moglie, di quel giornalista di Mediaset – Pietro Suber - che si è permesso di dimettersi dal Cdr, dopo le meravigliose inchieste di Mattino 5. Dunque uno che va punito per almeno due buoni motivi. Non è un caso che, sia sul Giornale che a Mediaset, le operazioni siano spesso gestite da persone esterne alle redazioni. Spesso qualcuno prepara la polpetta, e poi la polpetta vaga da una scrivania all’altra, viene passata alle redazioni perché la cucinino a dovere. Per vincere le resistenze dei giornalisti che si vuole far diventare buche delle lettere (minatorie), però, serve un grande sforzo propagandistico e logistico. Se devi fare l’articolo sui calzini turchesi di Mesiano, per esempio, ti serve una collega che abbia un contratto a termine e che non possa dire di no. Se devi fare le scarpe ad Augias, si prende addirittura uno che sulGiornale non ha mai scritto e gli si consegna direttamente la prima pagina: è lo sputtanamento chiavi in mano. Se devi colpire Mauro si ricicla un pezzo pubblicato su un blog addirittura tre anni prima da un giornalista che scrive per un quotidiano concorrente: non è importante cosa si fa e chi lo fa, ma quanto male fa. E poi si dice ai giornalisti di quelle redazioni, che spesso assistono attoniti, o che magari sono combattuti, due cose: 1) In fondo stiamo solo facendo ai nemici del premier quello che i giornali hanno fatto a lui. E poi 2) State tutti in campana perché non c’è nessuno di voi che non abbia uno scheletro nell’armadio. Non si tratta di due minacce inefficaci: in tutti i paesi del mondo non c’è ombra di dubbio che qualsiasi giornale scriverebbe che il premier va a puttane. In Italia non pochi oggi si ripetono: chi la fa l’aspetti. Le prime rasoiate hanno già prodotto la sensazione che tutti possono essere colpiti.

Io non credo, purtroppo, che scrivendo questo articolo posso dare il minimo fastidio ai nuovi angeli sterminatori: è poco meno della puntura di uno spillo. Ma in ogni caso, se dovesse servire, voglio fornire qualche spunto: sono indietro di tre mesi con il pagamento della rata del condominio, ho diverse multe inevase, ho fatto il servizio civile in un quartiere di periferia invece che servire la patria, due settimane fa ho litigato vivamente con mia madre per telefono, e – proprio sotto la redazione de
Il Fatto - ho mandato a quel paese un tizio che mi stava urtando il motorino con la sua Mercedes. In un libro che ho pubblicato pochi mesi fa ho intervistato l’ex interprete di Togliatti, uno che al 90 per cento era un agente delKgb (e mi ha fatto simpatia), per ben due volte ho provato mettermi a dieta e, anziché dimagrire, sono ingrassato. La cosa positiva è che, rispetto all’infamia concettuale del giornalismo vendicativo di conio feltriano, anche lo scheletrino peggiore che riesco a trovare nell’armadio, mi sembra una figurina amena. Ma chissà: magari loro trovano di meglio.

domenica 18 ottobre 2009

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