giovedì 20 novembre 2008

E sempre siano lodati gli speculatori

fonte:
http://www.ilribelle.com/

Federico Zamboni ha spiegato in modo magistrale, nello scorso numero, i vari e complessi meccanismi che hanno portato al collasso del mercato finanziario in tutto il mondo industrializzato. Tuttavia sarebbe fuorviante attribuire questo collasso agli speculatori, agli agenti facilitatori di mutui, alla "finanza creativa", agli edge fund, ai derivati, ai future, ai "titoli tossici". Questo è anzi ciò che stanno cercando di farci credere tutte le leadership politiche, economiche, intellettuali, che oggi criminalizzano quella "finanza creativa" e i suoi protagonisti che fino a ieri avevano tanto esaltato, per mascherare la realtà: che l'intero nostro modello di sviluppo è "tossico". Quanto è successo in quest'ultimo anno non è infatti che la punta di un iceberg gigantesco che affonda le sue radici (ammesso che un iceberg abbia delle radici e non galleggi invece, come il nostro modello, sul vuoto) ben al di là dei cosiddetti eccessi della "finanza creativa" e va oltre lo stesso mercato del denaro per arrivare al nocciolo duro e vero di tutta la questione e cioè al sottostante sistema industriale, all'"economia reale" come la chiamano. Il capitalismo finanziario non è che la diretta e inevitabile conseguenza (oltre che, in qualche modo, la precondizione) di quello industriale. Ne segue, e non si vede perché non dovrebbe farlo, le stesse logiche: il profitto, la sua massimizzazione col minimo sforzo, l'inesausta scommessa sul futuro. Prendersela col capitalismo finanziario, come fanno certe suorine della sinistra, alla Vivianne Forrester o alla Alain Mino, senza mettere in discussione l'industrialismo (cosa che le suorine di sinistra non possono fare perché Marx era un'industrialista convinto al pari di Adam Smith e David Ricardo) è come meravigliarsi che avendo inventato la pallottola si sia arrivati al missile.

La speculazione non è una prerogativa della finanza. Tutto il nostro sistema è basato sulla speculazione. In fondo si può dire che il primo uomo che ha scambiato una merce con un'altra con fini di guadagno (e perché questo sia possibile bisogna che esista il denaro come misura del valore dell'una e dell'altra), uscendo dall'onesto baratto, per cui se io ho del sale e tu del pepe io ti do un po' del mio sale e tu un po' del tuo pepe senza stare a badare (a "speculare") quale dei due vale di più, ha fatto della speculazione.

Naturalmente fino a quando questo spirito speculativo, completamente estraneo alle società che noi chiamiamo "primitive", restò circoscritto ai commerci, in assenza di un vero e proprio apparato industriale, le sue conseguenze furono limitate. Qualcuno si sarà fatto più ricco, qualcun altro più povero, ma la gente continuò a vivere, in buona sostanza, come aveva sempre vissuto. La società rimaneva fondamentalmente statica e quindi solida. Fra il "capitalismo commerciale", come lo chiamava Marx, che ebbe inizio in Italia fra il Duecento e il Trecento con l'ascesa dei mercanti fiorentini e piacentini, e quello industriale c'è infatti una sostanziale differenza di qualità. Il primo opera sull'esistente, su una domanda che c'è già. E quindi poco o nulla cambia. Il secondo dapprima dilata enormemente l'offerta di beni esistenti producendo su scala e a minor prezzo ciò che in precedenza era fatto artigianalmente. In un secondo tempo, col progredire della scienza tecnologicamente applicata, il capitalismo industriale produce beni nuovi, stimola o inventa bisogni che prima nessuno sapeva di avere. L'industrialismo, a differenza del commercio, non si limita a trasferire beni, li crea. E una volta che li ha creati ha la necessità di smerciarli. Di qui la perenne ricerca di nuovi mercati, sia in senso verticale (introduzione di sempre nuovi prodotti), sia in senso orizzontale, geografico, conquistando, con le buone o con le cattive, a questo modello di sviluppo altre civiltà, altre popolazioni, altre culture. È per questo processo, durato due secoli e mezzo, che si è arrivati all'odierna globalizzazione. Ma tutto ebbe inizio con la Rivoluzione Industriale. È in quel momento che ciò che noi chiamiamo Occidente finisce di essere una società tradizionale per divenire una società "calda" come l'ha definita Lévi Strauss. Le società tradizionali sono tendenzialmente statiche e privilegiano l'equilibrio e l'armonia a scapito della competizione, dell'efficienza economica e tecnologica. Quelle "calde" sono invece dinamiche e scelgono l'efficienza e lo sviluppo economico a danno però dell'equilibrio dato che "producono entropia, disordine, conflitti sociali e lotte politiche, tutte cose contro le quali... i "primitivi" si premuniscono forse in modo più cosciente e sistematico di quanto non supponiamo" (Lévi Strauss). Ma una società "calda" ha nel suo stesso dinamismo la propria condanna. Non solo perché con le sue accelerazioni forsennate (di cui quella del denaro è solo il prepuzio) richiede agli esseri umani uno sforzo continuo di adattamento e provoca stress, nevrosi, depressione, anomia, angoscia, ma perché un modello di sviluppo che si basa sulla crescita continua, che esiste in matematica ma non in natura, il giorno che non può più espandersi, implode, collassa su se stesso.

In quest'ottica l'attuale crisi economica può essere una doppia chance. Perché è un avvertimento a cambiare rotta, e presto, e subito, prima che si arrivi a una catastrofe irreversibile. E perché un modello di sviluppo che ha puntato tutto sull'economia, marginalizzando tutti gli altri valori ed esigenze dell'essere, e che fallisce anche e proprio sull'economia, indurrà, io credo, spero, le persone a riflettere anche sul non-economico, cioè sul tipo di vita insensata e disumana che conduciamo anche quando non sono in circolazione "bolle finanziarie" e minacce di recessione. Gli speculatori di Wall Street and company, svelando involontariamente il gioco per un eccesso di ingordigia che in realtà ci riguarda tutti, non saranno mai ringraziati abbastanza.

Massimo Fini