fonte:
http://www.ilribelle.com/mensile-on-line/2009/1/13/aids-milioni-di-morti-miliardi-di-utili.html
Aids Doveva essere la Peste di fine millennio,
poi le previsioni sono state smentite dai fatti.
Ma resta in piedi il giro d’affari. Immenso
di Federico Zamboni
La paura dell’Aids si diffuse nella prima metà degli anni Ottanta, in un crescendo di notizie sempre più inquietanti. A suscitare l’allarme non era solo il numero delle vittime: nei Paesi occidentali il cancro, il fumo e l’abuso di alcol ne hanno mietute – e continuano a mieterne – incomparabilmente di più1. La chiave di volta era un’altra: l’Aids non aveva una causa specifica. Come diceva il suo stesso nome, acronimo di Acquired Immune Deficiency Syndrome (Sindrome di Immunodeficienza Acquisita), l’unica cosa che si sapeva era che a un certo punto, per ragioni inesplicabili, le difese immunitarie di un ragguardevole numero di persone crollavano.
Inizialmente, come si ricorderà, il fenomeno sembrò riguardare due categorie specifiche: i tossicodipendenti e gli omosessuali. Nel loro modo di vivere, si ipotizzò, doveva esserci qualcosa che determinava l’insorgere della malattia. Le droghe, specialmente se consumate assiduamente e in forte quantità, potevano avere tra i propri effetti collaterali l’indebolimento, fino alla debacle, del sistema immunitario. Analogamente, si disse, gli omosessuali che cambiano un gran numero di partner finiscono con lo stressare il proprio organismo: a ogni contatto diretto con lo sperma altrui si verifica una sorta di “shock” immunitario, che a lungo andare mina, fino a comprometterle, le capacità di reazione. Inoltre, venne notato, in molti casi i gay statunitensi avevano uno stile di vita in cui l’alta promiscuità sessuale si accompagnava all’uso di stupefacenti.
Fino a questo punto, però, l’immagine pubblica dell’Aids rimaneva fedele alla sua definizione originaria. L’Aids restava una “sindrome”, vale a dire il risultato di un insieme di fattori. I quali, va da sé, restavano tutti da definire, potendo ricomprendere qualsiasi elemento che provocasse una forte diminuzione delle difese immunitarie. Ribadiamolo: qualsiasi elemento. Non necessariamente un virus.
Il nocciolo della questione è qui. E tutto quello che è venuto in seguito, dall’approccio medico allo sfruttamento commerciale, poggia su questo aspetto. La svolta arriva nel 1984, quando il ricercatore statunitense Robert Gallo2 annuncia sulle colonne di Science di aver individuato la causa dell’Aids. Il virus Hiv, appunto. Quell’ “Human Immunodeficency Virus” che determina di per se stesso, indipendentemente da ogni altro elemento, lo svilupparsi della malattia. Sulla base di questo presupposto si delineano le tre grandi direttrici su cui si procederà da lì in avanti. Nell’ordine, come vedremo meglio tra poco, la prevenzione, i test di rilevazione del virus e i metodi di cura. Nonché, a ricomprendere tutti e tre gli aspetti in quella che sarebbe la soluzione definitiva, la ricerca di un possibile vaccino. A proposito: già nel 1985 lo stesso Robert Gallo si (sbi)lancia in una previsione che gronda di ottimismo e che ha il sapore di una certezza. «Se il ritmo delle ricerche proseguirà con lo stesso slancio che hanno avuto finora, entro cinque anni si dovrebbe arrivare alla produzione del vaccino.»
1985 più 5. Uguale 1990. Diciotto anni fa.
Aids, che ci sia ciascun lo dice…
Posizionata la pietra angolare, con l’identificazione dell’Hiv come causa diretta ed esclusiva dell’Aids, l’edificio è cresciuto rapidamente. E, come accade molto più spesso di quanto non si voglia ammettere, la stragrande maggioranza degli operatori si è ben guardata dal chiedersi se quella premessa fosse davvero così solida come veniva affermato. Tranne rarissime eccezioni, puntualmente ignorate o tacciate di incompetenza nonostante vi fossero, tra loro, addirittura dei Premi Nobel quali il microbiologo Peter Duesberg e il chimico Kary B. Mullis, chi si è occupato di Aids negli ultimi vent’anni lo ha fatto allineandosi di buon grado alla versione dominante.
La teoria è diventata un teorema. Il teorema è diventato un assioma. Poiché l’Hiv era indiscutibilmente all’origine dell’Aids, le contromisure sono state analoghe a quelle che si sarebbero prese nei confronti di ogni altro virus dagli effetti mortali e dall’alto potenziale epidemico. La prevenzione si è focalizzata sui comportamenti da evitare per non incorrere nel contagio. La cura, in attesa del provvidenziale ma tuttora irraggiungibile vaccino3, si è rivolta a quei farmaci che potessero rallentare quanto più possibile lo svilupparsi della malattia. Inoltre, a metà strada tra prevenzione e cura, si è messo a punto un test che permettesse di accertare l’infezione da Hiv prima che si manifestassero i sintomi dell’Aids.
Cominciamo dalla prevenzione. Dopo oltre due decenni di martellamento mediatico è senza dubbio l’aspetto più noto dell’intera vicenda. Il presupposto è che l’Aids si trasmetta attraverso il sangue e altri fluidi corporei, in particolare quelli seminali per l’uomo e quelli vaginali per la donna. La parola d’ordine, perciò, è tanto semplice quanto perentoria: evitare qualsiasi contatto con quelle sostanze, specie se si ha a che fare con soggetti già infettati o comunque a rischio. Come? Dipende. In ambito sessuale le alternative sono due: la prima, che ogni tanto torna a essere caldeggiata ma che è talmente irrealistica da diventare risibile, è un’assoluta castità; la seconda è l’uso sistematico del profilattico, tanto meglio se all’interno di una relazione monogamica stabile e di lunga durata.
Per oltre vent’anni l’Azt, scoperto nel 1964 e subito accantonato per la sua
tossicità, rimase inutilizzato. Fino a quando la “scoperta” dell’Hiv permise
alla Burroughs Wellcome di riciclarlo.
Se il problema è la droga, invece, il pericolo principale – esclusi gli effetti immunodepressivi degli stupefacenti in quanto tali – consiste nel condividere con altri consumatori la stessa siringa e, quindi, lo stesso ago. La soluzione, ovvia, è che ognuno utilizzi siringhe “usa e getta”. Il che ci porta al principio di carattere generale che si è esteso a qualunque altro ambito, dagli ospedali ai dentisti, dai barbieri ai laboratori in cui si fanno i tatuaggi o si mettono i piercing: gli strumenti che possono sporcarsi di sangue devono essere rigorosamente monouso. Li compri, li usi, li butti. Affinché qualcun altro, intanto, li produca, li venda, ci guadagni. Nel suo piccolo (ma nemmeno poi tanto, se si moltiplicano gli importi unitari per un numero enorme di pezzi) il business dell’Aids passa anche di qui.
Ma il grosso, naturalmente, transita altrove. Innanzitutto nei farmaci. Innanzitutto nel famigerato Azt. Scoperto nel 1964 da Jerome Horwitz, che sperava di poterlo impiegare nelle terapie antitumorali, palesò fin dall’inizio difetti tanto gravi da indurre lo stesso Horwitz a disinteressarsene, al punto che non lo brevettò neppure. Per oltre vent’anni l’Azt rimase inutilizzato. Poi, in coincidenza con l’emergere dell’Aids e dell’ipotesi virale di Gallo e Montagnier, la Burroughs Wellcome4 lo fece uscire dall’ombra e ne avviò la sperimentazione clinica. Le aspettative erano altissime. Il clima di allarme che andava dilagando, nel consueto rimbalzo tra tecnici, pubbliche istituzioni e mass-media, rendeva più che mai urgente il reperimento di una qualsivoglia terapia. Risultato: nonostante i pesantissimi effetti collaterali (collaterali?) l’Azt superò agevolmente le verifiche e venne validato. A mali estremi, estremi rimedi. Ora i medici potevano prescriverlo. I malati dovevano assumerlo. Alla Burroughs Wellcome non restava altro da fare che avviarne la produzione su vasta scala e prepararsi a incassare il fiume di denaro che sarebbe scaturito dalla sua commercializzazione. Dal punto di vista imprenditoriale, o speculativo, era il massimo che si potesse ottenere: il monopolio assoluto su un mercato vastissimo, per di più in continua crescita.
Siete sieropositivi all’Hiv, ma non avete alcun sintomo? Secondo
gli esperti dovete curarvi comunque, come se aveste già l’Aids. Farmaci
su farmaci, incluso il famigerato Azt.
Ed eccoci all’ultimo tassello: il test di rilevazione dell’Aids. O meglio, e la differenza è determinante, il test di rilevazione degli anticorpi all’Hiv. Il test è ormai accessibile a tutti, anche privatamente. In Rete viene proposto a prezzi variabili che partono da un minimo di 12 sterline, e il consiglio è di utilizzarlo ogni qual volta vi sia una possibilità di contagio. Ovvero, per parlare dell’eventualità più comune, ogni volta che si sia avuto un rapporto sessuale “non protetto” con un partner sconosciuto e del quale non si è perfettamente sicuri (come se poi, in un’epoca di altissima promiscuità come la nostra, si potesse essere totalmente certi della condotta di chicchessia). Inoltre, visto che i tempi di reazione sono soggettivi, il consiglio aggiuntivo è di ripetere il test a più riprese, a distanza di alcune settimane.
Ma il problema principale non è neanche il costo: è la sua effettiva utilità. E le conseguenze che innesca. La tesi corrente, come abbiamo visto, è che l’Aids sia determinato dal virus Hiv e che, pertanto, il passaggio dall’infezione iniziale alla malattia conclamata sia solo questione di tempo. Benché per tanti altri virus questo periodo di incubazione sia solitamente breve, nel caso dell’Hiv/Aids è non soltanto molto più lungo di quanto avviene, ad esempio, per il colera (1-5 giorni) o per l’Ebola (3-9 giorni), ma è addirittura indeterminato. In altre parole, e la casistica è estremamente ampia, si può risultare positivi al test per l’Hiv e non avere nessun calo, e men che meno nessun crollo, delle difese immunitarie. Tecnicamente si è stati colpiti dal virus, come sta a indicare la presenza di anticorpi; concretamente l’organismo continua a funzionare come sempre, senza alcun danno né evidente né occulto. Si è malati di nome, si è sani di fatto. E quindi?
Secondo gli “esperti” bisognerebbe curarsi comunque. In via preventiva. Iniziare subito ad assumere farmaci “antiretrovirali” e sottoporsi a un monitoraggio costante. Proprio come si farebbe se, invece, ci si trovasse già in una fase ben più avanzata. Malati di nome, malati di fatto.
AIDS, c’è chi dice no
I dubbi sull’attendibilità della versione ufficiale, quella che il succitato Premio Nobel Peter Duesberg definisce esplicitamente «un dogma»5, sono cominciati già alla fine degli anni Ottanta. Mentre la generalità degli operatori si allineava pedissequamente all’impostazione prevalente, vuoi per mero conformismo, vuoi perché direttamente partecipi dei profitti che ne stavano derivando, alcuni studiosi si fermarono a riconsiderare l’intera questione. Fino a metterne in discussione le premesse.
La versione ufficiale domina il sistema
sanitario e, quindi, l’azione dei governi.
Il pregio, si fa per dire, è che quella
versione soddisfa un’infinità di interessi. Che sono tanto economici quanto politici.
Non era affatto facile. Oltre a una competenza specifica in materia di virus e di processi biochimici, ci volevano la lucidità, l’onestà intellettuale e la forza morale necessarie ad affrancarsi da quello che ormai era diventato un pensiero unico. Al di là dell’aspetto squisitamente scientifico – e anche nella scienza, checché se ne dica, andare contro certe “verità” significa esporsi alla demonizzazione e all’ostracismo – c’era da fare i conti con altri due ostacoli. Enormi. Primo, l’opinione pubblica era terrorizzata e desiderava oltremodo che l’Aids venisse ricondotto entro i limiti di un’epidemia, per quanto grave, della quale si erano finalmente scoperte sia le cause che le terapie. Secondo, i vari Gallo e Montagnier erano circonfusi da una sorta di aureola che li rendeva inattaccabili, proprio perché venivano presentati, e percepiti, come i paladini della lotta contro il Male. Se loro erano i novelli San Giorgio, e l’Aids era il drago, quanto spazio c’era per chi veniva a criticarli, accusandoli di aver sbagliato tutto? Affermando che le loro tesi erano un cumulo di bugie, o se non altro di abbagli. Sottolineando che le catastrofiche ipotesi iniziali su una diffusione esponenziale del morbo erano state smentite dalla realtà. Sostenendo che non è affatto vero che l’Aids sia causato dal virus Hiv – che tutt’al più ne costituirebbe un effetto secondario, proliferando a sua volta in un organismo indebolito dal venir meno delle normali difese immunitarie – e che la massima parte delle morti attribuite all’Aids, specialmente in Africa, sono invece dovute a malattie ben note quali la dissenteria e la tubercolosi, e andrebbero perciò ricondotte ad altre cause tra cui la denutrizione e le condizioni igieniche sempre più precarie. Accusando l’Azt, infine, di essere sempre restato ciò che era all’inizio, vale a dire una sostanza altamente tossica i cui effetti negativi sono di gran lunga superiori a quelli positivi, quand’anche ve ne siano.
Attribuendo l’Aids a un virus, e solo ad esso, l’Occidente si assicura un’assoluzione preventiva per ogni immunodepressione.
La battaglia è stata impari fin dal primo momento e lo è rimasta. La versione ufficiale continua tuttora a dominare il sistema sanitario e, di conseguenza, il modo in cui i governi approcciano il fenomeno. Vere o false che siano, le spiegazioni che sono state date all’Aids hanno il pregio, si fa per dire, di soddisfare simultaneamente un’infinità di interessi. Che vanno dalla politica, ivi inclusa la geopolitica, all’economia. La priorità della politica è che la situazione sia, o appaia, sotto controllo. Quella dell’economia è che la gestione del fenomeno movimenti immense somme di denaro, sotto forma sia di investimenti pubblici per la prevenzione e la cura a spese dello Stato dei malati (veri e presunti) sia di costi a carico dei privati che si sottopongono alle terapie, onerose non solo per il prezzo delle singole confezioni di farmaci ma perché, non avendo come scopo la guarigione definitiva ma solo il contenimento della malattia, si protraggono all’infinito.
Ma c’è dell’altro. Ed è forse l’aspetto più importante, anche se di solito non se ne fa cenno alcuno. Accanto alle funzioni che abbiamo visto, infatti, il “dogma dell’Hiv” ne svolge un’altra assai meno evidente, ma della massima importanza. Attribuendo l’Aids a un virus, e soltanto ad esso, l’Occidente si assicura un’assoluzione preventiva, e illimitata, per qualsiasi altra forma di immunodepressione.
La causa è un virus? Allora si tratta di una fatalità. Che non dipende da noi. La radioattività? Non c’entra. L’inquinamento chimico? Non c’entra. Ammettere che fattori di questo tipo possano danneggiare il sistema immunitario, fino a renderlo inservibile, significherebbe aprire almeno uno spiraglio a una revisione critica del nostro stile di vita.
La faccia scura della luna, come si dice. Ci fanno vedere quella illuminata, quella del benessere consumista, e moltissimi di noi si lasciano abbagliare. Senza preoccuparsi di cosa c’è davvero dall’altra parte. ™
Federico Zamboni
Note:
(1) Per limitarsi all’Italia, le cifre ufficiali fissano le vittime di tumore in circa 150 mila persone. Le vittime dell’Aids, invece, sono intorno alle 200. Secondo il Ministero della Sanità dipende dal diffondersi delle terapie antiretrovirali, ma resta il fatto che negli ultimi anni sono calati drasticamente anche i casi di nuovi sieropositivi (per una ricognizione aggiornata al 2007, www.ministerosalute.it/resources/static/primopiano/503/DATI_AIDS_ISS.pdf).
(2)L’annuncio di Gallo scatenò una vera e propria battaglia, anche legale, con Luc Montagnier e con l’Istituto Pasteur in cui questi operava. Montagnier, infatti, aveva isolato il virus Hiv già un anno prima di Gallo e ne rivendicò la paternità, vincendo la causa contro il collega americano.
(3)L’ultimo annuncio di un’ormai prossima messa a punto di un vaccino è arrivato dallo stesso Luc Montagnier all’inizio dell’ottobre scorso. Durante la cerimonia di consegna del Nobel 2008, che gli è stato attribuito per la medicina a fronte dei suoi studi sull’Aids, Montagnier ha detto che sta lavorando a un vaccino "terapeutico" che dovrebbe essere ufficializzato "entro tre o quattro anni se i finanziamenti saranno costanti".
(4)La Burroughs Wellcome, in realtà, è un marchio che rinvia a due attività distinte. Da un lato la grandissima industria farmaceutica che tutti conoscono; dall’altro una fondazione di ricerca scientifica. Come si legge nel sito di quest’ultima (bwfund.org), “The Burroughs Wellcome Fund is an independent private foundation dedicated to advancing the biomedical sciences by supporting research and other scientific and educational activities”.
(5)Le posizioni di Peter Duesberg sono esposte, in maniera esauriente e comprensibilissima, nel volume Aids, il virus inventato (Baldini, Castoldi, Dalai, pagg. 527, € 9,90), al quale rinviamo espressamente per una dettagliata conoscenza delle tesi alternative a quelle ufficiali.