di Sergio Cabras
Nel tempo che ci separa dagli anni Settanta molte cose sono successe. Alcune di queste sembravano una contingenza momentanea, ma in seguito hanno preso forma in pianta stabile come colonne (o stampelle?) portanti del sistema in cui viviamo.
Una di queste è certamente la presunzione di trovarsi in uno stato di emergenza, in una fase, data per momentanea, transitoria ( - certo, forse per un dato tipo di emergenza, salvo che poi ce n’è sempre subito un’altra) in cui si presenta il concreto rischio di perdere ciò che abbiamo (o che crediamo di avere) e che dobbiamo difendere a qualsiasi costo: in cui la difesa di ciò diventa la priorità del momento rispetto alla quale tutto il resto deve passare in secondo piano.
Al termine degli anni ‘70 questo ha permesso la stretta repressiva, il controllo sociale e poliziesco, il luogo comune e la facile etichettatura nell’informazione che hanno facilitato l’equiparazione di qualsiasi movimento di lotta radicale con i terroristi e chi li sosteneva.
Sul panorama internazionale, dopo la fine della Guerra Fredda, dall’11 settembre in poi, siamo nella guerra permanente, contrabbandata sotto altre definizioni, ed esportata (insieme alle armi e alla “democrazia”) ora qua ora là, contro il terrorismo…. anzi, il Terrorismo, la cui ci minaccia può colpirci in ogni momento e toglierci questa pace e democrazia che altrimenti starebbero già trionfando nel mondo grazie al libero mercato.
Adesso è arrivata la Crisi economica: un grande pericolo che avanza e ci soffia sul collo minacciando….. cosa? A ben vedere di farci ridimensionare il nostro esagerato tenore di vita e portarci ad uno stile più sobrio e sostenibile per il pianeta, uno stile che ci potrebbe evitare problemi ben più gravi in un futuro abbastanza prossimo.
Ma noi non abbiamo tempo per guardare a questa prossimità: dobbiamo pensare all’emergenza di turno, che questa volta è veramente grande, è mondiale, ci può togliere stipendio e lavoro se dovesse peggiorare. Può togliere il futuro ai nostri figli - quelli che non stiamo più facendo o quelli il cui futuro stiamo già gravemente ipotecando altrimenti. Questa emergenza è di grande portata e potrebbe essere anche di lunga durata, magari potrebbe diventare permanente…. come la guerra al Terrorismo.
Tutto sommato somiglia un po’ all’11 settembre: non che non sia reale e non che non colpisca duramente, ma anche questa, in un certo senso, se non c’era…. bisognava inventarla.
Negli anni ‘70 si diceva “la crisi è strutturale”. Si intendeva che il capitalismo è destinato a crollare come sistema a causa delle contraddizioni interne che porta con sé e nella società. Certo, probabilmente finirà così e forse anche più prima che poi. Però, nel frattempo, la crisi potrebbe diventare un elemento strutturale anche nel senso di una ulteriore stampella ormai permanentemente necessaria per evitare che ci si rivolga ad altre strade; che il disagio crescente e la ristrettezza dei margini ridistribuibili di profitto producano dubbio e sfiducia (e con essi la possibilità di vedere le cose da un punto di vista differente, di immaginare delle alternative); che questa sfiducia giunga a diffondersi in strati sociali diversi da quelli tradizionalmente emarginati.
Forse la minaccia della Crisi, di perdere ciò che si ha (per chi è più giovane, ciò che si è sempre avuto, e che costituisce l’unico tipo di vita che si conosce) è un buon deus ex machina perché tutti continuino a fare la propria parte, di produttori, di consumatori, perché tutti si identifichino col sistema, senza troppi dubbi. Se l’adesione dei cittadini al sistema sociale non tiene più sulla base della convinzione, di un’identità, di regole ed istituzioni condivise, di un’idea in positivo, una visione del mondo e della Storia, che lo faccia allora su quella della paura e dell’interesse a non perdere ciò che si ha.
Che lo faccia dunque su questa base, povera e negativa, nell’era della ricchezza.
La gente oggi deve capire che nell’atto di comprare e (forse ancor più) in quello di buttare per ricomprare ancora non c’è solo un ovvio aspetto di piacere nell’acquisire qualcosa di nuovo e di simbolicamente significativo, ma ce n’è anche un altro di dovere, di fare la propria parte o, se la si vuol mettere diversamente, di realismo, di interesse personale nel tenere in piedi “la baracca”- che è poi ciò che ognuno ha in comune con gli altri, in una sorta di solidarietà nell’egoismo (che può anche funzionare, fino a che tutto gira comunque abbastanza bene e le vacche son ancora grasse, ma non credo altrettanto in caso contrario).
Si ripropone ancora una volta la solita formula, secondo la quale, per risolvere i problemi causati dallo sviluppo, ci vuole più sviluppo, per quelli del mercato, più mercato, per quelli della tecnologia, più tecnologia…ecc… Non è tempo di scantonare, dunque, ma di concentrarsi sul continuare a camminare (o correre) in avanti, rimandando ad oltranza il momento di chiedersi perché e verso dove si stia andando.
Dev’esser chiaro a tutti che i consumi vanno mantenuti, ed anzi rilanciati, aumentati. Che non venisse in mente a nessuno di diminuirli. Ché nella stessa barca consumistico-tecnologica ci stiamo dentro tutti, nessuno si faccia illusioni di chiamarsi fuori e se questa affonda ci affoghiamo tutti insieme…. ché ormai qui le braccia per nuotare non le sa usare più nessuno.
In altre parole, se qualcuno non capisce l’importanza del consumare agli attuali e crescenti livelli con le (ragioni) buone, deve capirlo con le cattive.
Ma non c’è solo la paura: c’è anche la speranza; ora si affaccia la deflazione, ora sembra esserci una certa ripresa, magari non tale da sentirsi sull’occupazione e sui prezzi, ma che permette agli economisti di presumere un qualche punto percentuale in più a partire dall’anno prossimo…. salvo che poi i calcoli potrebbero dover esser rivisti al ribasso…..ecc..ecc.. Non so: io non ho le conoscenze di “scienze” economiche sufficienti per immaginare cosa effettivamente potrebbe accadere da qui a un anno. Ma il punto è che la stragrande maggioranza delle persone (e temo - seppure a un altro livello - anche degli stessi economisti) non lo sanno, non ne possono proprio avere gli elementi. E neppure su cosa davvero stia accadendo ora.
In ogni caso, tranne che quando il tracollo non sarà divenuto manifesto, c’è da aspettarsi che le notizie saranno sempre altalenanti, perché sarebbe troppo pericoloso il diffondersi di un pessimismo finanziario e di una depressione consumistica. La minaccia della Crisi non ha solo la funzione di previsione di qualcosa che ha più o meno probabilità concrete di accadere, ma ha precisamente quella di minaccia. La minaccia permanente, alternativamente accompagnata da momenti di speranza di segno opposto, così come il sistema pedagogico del bastone e la carota, hanno proprio l’effetto di alimentare attaccamento ed identificazione in qualcosa da cui altrimenti si potrebbe sentir ormai maturo il tempo per distaccarsi, emanciparsi. Si potrebbe pensare di esser diventati “grandi” e poter finalmente guardare a sé stessi, a ciò che veramente è la propria reale esperienza vissuta e alla realtà. Invece dobbiamo ancora restare bambini e credere alle favole.
Ma qual’è la favola di cui si sta parlando?
Il punto non è se la Crisi sia vera o no (ho già detto che non avrei la competenza per discutere questo), né mi interessa più di tanto analizzare in che misura può o meno trattarsi di una di quelle campagne cosiddette d’informazione orchestrate ad arte. Per chi veramente è in grado di liberare la propria vita non è sempre così necessario individuare un oppressore. Il fatto sostanziale è che la paura di perdere una condizione materiale (un livello di consumi) che viene ritenuta l’unica degna di esser vissuta e il desiderio (necessariamente insoddisfabile) di avere sempre di più e d’altro sono (insieme) elementi strutturalmente portanti del lato interno/vissuto di questo sistema e di questo modello di società.
E’ un po’ come se, diventati dipendenti da un farmaco palliativo da prendere a vita, ne accettassimo i pesantissimi effetti collaterali anziché cercare un’alternativa meno impattante (o magari anche la salute) perché già la notizia che questo farmaco sta diventando scarso, che le riserve stanno diminuendo, ci spaventasse a tal punto da impedirci di considerare ogni altra possibilità.
Così la paura delle conseguenze di una crisi economica profonda può far sì che molte persone si identifichino col sistema, nel proprio stile di vita e in quelli che ritengono i propri interessi, anche se ne danno un giudizio sostanzialmente negativo, subendo la pretesa necessità di sostenerlo nei fatti, anche se non nelle parole. Ma questa identificazione avviene essenzialmente solo in un’ottica passiva: così da non vedere quanto davvero siano la stessa cosa, quanto davvero stia nelle loro mani il crearlo e ricrearlo ogni giorno, come parti dei suoi meccanismi. Quanto, in realtà, questa emergenza e questo pericolo che il nostro “tutto” (ma cosa poi, esattamente?) possa andar perduto siano tali solo nella nostra testa e in quella di chi non sa immaginare altre forme di vita, né vuole che altri le immaginino, agitando così lo spauracchio di una crisi che c’è - nessuno lo nega - ma che, se non ci fosse, bisognerebbe, appunto, inventarla. Proprio per le buone opportunità che può dare a chi ha interesse a mantenere in vita questo sistema.
Come anche le dà - d’altra parte - a chi ci trova delle buone ragioni per abbandonarlo, superarlo, e costruire fin da ora (quale che sarà l’esito di questa paventata Crisi) forme di vita ed economia diverse basate su ciò che veramente abbiamo, come esseri umani, e non sulle molte illusioni che ci sono sempre state vendute.
Questo post è la versione ridotta (per motivi di spazio) di un articolo più ampio che, chi volesse leggere per intero, può trovare su
http://ecofondamentalista.blogspot.com/2009/06/stato-di-emergenza.html